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Articolo giornalistico dedicato a Don Liborio Romano, raccolto da Giovanni Spano

Titolo: libro noi speravamo

 GIUSEPPE ROMANO DA PATÙ, PATRIOTA E DIFENSORE DEGLI INTERESSI DEL MEZZOGIORNO NEL PARLAMENTO ITALIANO

Giuseppe Romano da Patù (1806-1891), meno indagato dalla storiografia nazionale e locale rispetto al fratello Liborio, merita invece di essere ricordato, sia per la sua partecipazione alle vicende del Risorgimento nazionale, sia per l’impegno a favore del Mezzogiorno profuso nelle aule del Parlamento negli anni successivi all’Unità.
Gli studi di carattere generale sul Risorgimento salentino sono abbastanza datati; si tratta di ottimi lavori, ampiamente documentati, che hanno visto la luce tra il 1909 e il 1913 (mi riferisco ai saggi di Saverio La Sorsa, Pietro Palumbo e Nicola Bernardini), ai quali sono seguiti, negli anni successivi, altri lavori che hanno inquadrato gli avvenimenti di Terra d’Otranto nel più ampio contesto regionale e nazionale e, infine, una serie di monografie riguardanti singoli personaggi. Se vogliamo schematizzare, è possibile individuare anche in Terra d’Otranto i tre filoni più significativi del Risorgimento, all’interno dei quali si sono mossi con ruoli spesso di primo piano i maggiori protagonisti del riscatto nazionale. All’interno del gruppo mazziniano hanno svolto una rilevante azione di rilievo nazionale uomini come Epaminonda Valentino (originario di Gallipoli), Giuseppe Libertini da Lecce, Nicola Mignogna da Taranto, Giuseppe Fanelli da Martina Franca, Nicola Schiavoni da Manduria, Cesare Braico da Brindisi, Antonietta De Pace da Gallipoli; possiamo collocare nella corrente moderata cavouriana-sabauda uomini come Giuseppe Pisanelli da Tricase e Sigismondo Castromediano da Cavallino, ma anche Giuseppe Massari da Taranto, dopo una sua iniziale adesione alle proposte politiche di Vincenzo Gioberti; c’è poi un terzo gruppo che possiamo definire unitario-autonomista, all’interno del quale è possibile collocare i fratelli Liborio e Giuseppe Romano. Hanno svolto un’importante funzione nell’ambito del Risorgimento salentino anche il gallipolino Bonaventura Mazzarella, il magliese Oronzio De Donno, i leccesi Salvatore Brunetti, Michelangelo Verri e i fratelli Gioacchino e Salvatore Stampacchia, il tarantino Vincenzo Carbonelli .

Dalla Carboneria alla Giovane Italia nel Salento; G. Romano implicato in una congiura mazziniana

Dopo il congresso di Vienna, Ferdinando IV, restaurato sul trono con il titolo di re delle Due Sicilie e con il nome di Ferdinando I, nonostante le attese dei liberali, non concesse la Costituzione che pure aveva promesso prima del suo rientro a Napoli; ciò fu uno dei motivi per cui si registrarono diversi episodi di rivolta in molte province del regno, dove la lotta per la Costituzione divenne uno degli obiettivi principali delle organizzazioni settarie, tra le quali la più importante era la Carboneria, che fece proseliti soprattutto tra gli esponenti della classe borghese che, nel periodo di Gioacchino Murat, si era affermata come classe dirigente contro la vecchia aristocrazia feudale. Molti professionisti, artigiani, commercianti, ufficiali dell’esercito, rappresentanti del basso clero, e anche piccoli proprietari terrieri, scontenti della politica fiscale adottata dal primo ministro Luigi Dei Medici, si organizzarono all’interno delle società segrete per costringere il sovrano a garantire maggiori spazi di libertà e di autonomia amministrativa attraverso la concessione della Costituzione. Dopo il fallimento di alcuni tentativi insurrezionali nel 1817-1818, i carbonari ripresero l’iniziativa a seguito dello scoppio della rivoluzione spagnola del 1820; nel luglio dello stesso anno, un gruppo di ufficiali, sottufficiali e soldati semplici di stanza a Nola, capeggiati dai sottotenenti Michele Morelli e Giuseppe Silvati, ai quali si affiancarono il sacerdote Luigi Menichini e altri ufficiali (tra i quali la figura più rappresentativa era quella del generale Guglielmo Pepe), costrinsero il sovrano a concedere la Costituzione e a nominare un nuovo governo, fissando, nel contempo, la data per l’elezione dei deputati al Parlamento. Le speranze suscitate da tali avvenimenti favorirono in molte province l’adesione al progetto rivoluzionario anche di alcuni settori del mondo contadino, nella speranza che il nuovo governo attuasse radicali riforme come la distribuzione delle terre demaniali e la riduzione delle tasse (soprattutto quella, odiosa e odiata, sul sale). La Carboneria, presente in Terra d’Otranto con alcune sezioni -vendite- fin dal periodo murattiano, nel 1820 era presente in molti centri anche piccoli del basso Salento; nel distretto di Gallipoli erano attive le vendite di Corigliano (dove il rappresentante di maggiore prestigio era il sacerdote Gaspare Vergine), Galatina, Otranto, Nardò, Calimera, Torrepaduli, Ruffano, Supersano, Specchia, Taurisano, Nociglia, Scorrano, Presicce, Patù; le vendite erano guidate da un numero ristretto di capi tra i quali le figure più importanti erano quelle del presidente, del segretario, del primo e secondo sorvegliante, del cassiere e dell’esperto .
Dopo la concessione della Costituzione, alcuni patrioti salentini presero l’iniziativa di costituire a Lecce un comitato provinciale per l’organizzazione delle elezioni presieduto da Vincenzo Balsamo e del quale facevano parte Benedetto Mancarella, il vescovo di Lecce Nicola Caputo e il sacerdote Oronzo Guarini; Balsamo lanciò un appello agli intellettuali affinché propagassero le idee di libertà tra le popolazioni dei comuni della provincia. A partire dal mese di agosto del 1820 i sindaci predisposero le liste dei cittadini maggiorenni -gli idonei- i quali avrebbero eletto i deputati al Parlamento e la nuova deputazione provinciale; per i distretti di Lecce e di Gallipoli furono eletti Michele Tafuri da Nardò e Ippazio Carlino da Lecce, i quali parteciparono a Napoli alla riunione solenne del 1° ottobre 1820 nel corso della quale il re Ferdinando giurò fedeltà alla Costituzione. Molti deputati si dimostrarono sensibili alle istanze di riforme sociali, ma l’attività del Parlamento fu paralizzata dai contrasti tra il gruppo dei democratici carbonari e quello dei moderati murattiani; di lì a poco, Ferdinando, venendo meno al giuramento di fedeltà alla Costituzione, chiese e ottenne l’intervento dell’esercito austriaco affinché ripristinasse l’ordine e ponesse fine all’esperienza costituzionale. Il governo carbonaro affidò al generale Guglielmo Pepe l’incarico di affrontare le truppe che marciavano su Napoli. In molte province si organizzarono, per iniziativa dei commissari inviati dal governo centrale, gruppi di volontari che avrebbero dovuto unirsi all’esercito di Pepe; per la provincia di Terra d’Otranto l’incarico fu affidato a Liborio Romano, giovane professore di diritto commerciale presso l’Università di Napoli, il quale, in collaborazione con i leccesi Nicola Paladini, Giuseppe Parisi e Guglielmo Paladini, riuscì ad organizzare una compagnia di cavalleria (gli Ussari salentini), che mosse alla volta di Napoli senza però riuscire a congiungersi con l’esercito di Guglielmo Pepe che, nel marzo del 1821, fu sconfitto a Rieti dagli Austriaci; poco dopo, il sovrano pose fine all’esperienza costituzionale; iniziò un periodo di persecuzioni nei confronti di quanti avevano partecipato al nonimestre rivoluzionario; gran maestri, dirigenti, affiliati o semplicemente sospettati di avere fatto parte delle società segrete furono condannati a morte, al carcere duro o costretti ad andare in esilio; in ogni provincia le Gran Corti Criminali inflissero pesanti condanne spesso solo sulla base di delazioni che provocavano l’arresto anche di persone che non avevano avuto alcuna responsabilità nelle vicende rivoluzionarie .
Dopo la morte di Ferdinando I nel gennaio 1825, i liberali si attendevano che il nuovo sovrano Francesco I, il quale, avendo concesso un’amnistia estesa anche ai reati politici meno gravi, aveva suscitato tante speranze, attuasse una politica più liberale o almeno meno repressiva, ma così non fu; in tutte le province del regno, infatti, i liberali continuarono ad essere perseguitati ed anche in provincia di Terra d’Otranto l’intendente Cito perseverò nella sua feroce azione di persecuzione. Venne data la caccia a tutti coloro che si sospettava fossero membri della società segreta degli Ellenisti (o Edennisti), una setta che, come si dimostrò successivamente in sede processuale, non esisteva affatto; si trattava, infatti, di un’invenzione di Ferdinando Cito e dei suoi più stretti collaboratori, i quali utilizzavano i processi farsa allo scopo di perseguitare gli oppositori (o presunti tali) che venivano classificati come attendibili sulla base di velenose e calunniose segnalazioni il più delle volte anonime. La politica repressiva di quegli anni provocò l’arbitrario arresto di molti liberali che vennero rinchiusi nel famigerato carcere politico di Santa Maria Apparente a Napoli; tra i più noti ricordiamo Vito Domenico Fazzi da Calimera, i leccesi Ignazio Metraja, Gaetano Molines, Pantaleo Colonna e Vincenzo Balsamo, Giuseppe D’Ambrosio da Copertino, Salvatore Patitari da Gallipoli, Paolino Quintana da Cocumola, Gaetano Giannetta, Agostino e Domenico Pirtoli da Specchia Gallone, don Cirino Ciullo, parroco di Vitigliano, don Gaspare Vergine, sacerdote di Corigliano, Eugenio Romano ed Ercole Stasi da Presicce e i fratelli Liborio, Gaetano e Giuseppe Romano da Patù. Il processo farsa a loro carico si concluse con alcune condanne lievi e con molte assoluzioni in quanto gli stessi inquirenti non trovarono elementi sufficienti per dimostrare l’esistenza di quella setta; Liborio Romano e Vito Fazzi furono sottoposti a regime di «stretta sorveglianza»; il notaio Gaetano Giannetta fu obbligato ad allontanarsi dal suo paese, Paolino Quintana fu affidato alle autorità di polizia perché fosse tenuto sotto «severa sorveglianza»; Gaspare Vergine, giudicato «uomo scellerato, irreligioso, irreconciliabile» e Cirino Ciullo, furono condannati al confino; a Ercole Stasi e Gaetano Romano fu imposto di non allontanarsi da Lecce, senza il permesso dell’Intendente; a Narciso Trunco, ricevitore del registro e bollo in Tricase, e a Francesco Campi da Sanarica fu imposto l’obbligo a rimanere per un certo periodo lontani dalla provincia; all’arcidiacono Giuseppe Pasquale Pascarito, a Pantaleo Pascarito e Antonio Pasca da Sanarica, ad Agostino Pirtoli e don Domenico Pirtoli da Giuggianello, a Giovanni ed Angelo Romano da Patù, a Eugenio Romano da Salve, a Pasquale Sauli da Tiggiano, domiciliato a Tricase, fu imposto il regime di sorveglianza; Giuseppe Nigro, decurione e cancelliere di Giuggianello, fu costretto a lasciare entrambe le cariche. L’azione repressiva di Cito non cessò con la conclusione del processo; la partenza dal regno di Napoli del contingente militare austriaco nel luglio 1827 e le notizie che giungevano dalla vicina Grecia, che in quegli anni lottava per l’indipendenza dall’impero Ottomano, suscitarono nei liberali nuove speranze, per cui l’intendente Cito, allo scopo di spegnere sul nascere ogni possibile manifestazione di entusiasmo per la causa greca, inasprì la vigilanza e promosse una nuova ondata di arresti; gli imputati erano tenuti in carcere per lunghi mesi spesso sulla base di semplici denunce anonime .
Giuseppe Romano, pochi anni dopo la conclusione di quel processo, fu vittima di una nuova ondata repressiva tesa a colpire i responsabili di una presunta congiura mazziniana; il ministro di Polizia Del Carretto, ritenendo che egli fosse un «emissario della Propaganda», il 24 agosto 1833 ordinò all’intendente di Terra d’Otranto duca di Montejasi di procedere al suo arresto; Del Carretto sospettava che, dietro i frequenti spostamenti del Romano da Patù a Napoli e a Trani, dove egli svolgeva la professione di procuratore, vi fossero, non motivi commerciali legati alla compravendita di olio, come egli sosteneva, ma affari politici, vale a dire l’organizzazione di una rivolta di alcuni reparti dell’esercito borbonico con l’aiuto di truppe francesi e inglesi. Il 27 agosto, in piena notte, i gendarmi diedero l’assalto alla casa dei Romano in Patù, ma non fecero in tempo ad arrestarlo; Giuseppe, infatti, riuscì a scappare attraverso un giardino retrostante da dove, grazie ad una scala rudimentale che era stata prudentemente collocata in precedenza, si dileguò nelle campagne. Coprirono la sua latitanza gli zii di Diso e Marittima Gianbattista e Paolino Maglietta, quelli di Galatina (Pasquale De Micheli) e di Martano (i Corina). Non essendogli riuscito di imbarcarsi per Corfù, Giuseppe chiese, per il tramite del fratello Giovanni che risiedeva a Lecce, di presentarsi spontaneamente agli uffici dell’Intendenza, dove venne trattenuto in stato di fermo dal 13 settembre al 26 novembre, quando gli venne concesso di rientrare a Patù. Nel corso della perquisizione del 27 agosto vennero rinvenuti, e sequestrati, un libro di Aristotele, uno di Vittorio Alfieri, oltre a lettere e a fogli sparsi sui quali erano annotati alcuni pensieri sulla libertà, sui costumi della società americana e sul concetto di libertà in Aristotele. Alla fine del 1833, Giuseppe poté tornare a Napoli, dove, insieme con il fratello Liborio, si dedicò all’attività forense. La sorveglianza della polizia nei suoi confronti non si allentò; nel gennaio 1834, infatti, il Ministero di polizia gli fu ancora addosso perché sospettato di mantenere una «corrispondenza criminosa» con alcuni emissari della Giovane Italia che si trovavano all’estero. Se sembra abbastanza certo che anch’egli, come altri giovani liberali napoletani del tempo, si fosse avvicinato alla propaganda mazziniana, è altrettanto certo però che la sua moderazione politica lo portava a non riconoscersi totalmente nelle posizioni più radicali dell’organizzazione mazziniana. L’accusa di mantenere contatti con l’estero aveva un certo fondamento, visto che tanto lui quanto il fratello Liborio avevano rapporti professionali con molti stranieri, soprattutto inglesi, che avevano interessi commerciali a Napoli; è altamente probabile che Giuseppe Romano si prestasse a fare da intermediario tra ambienti politici napoletani ed emissari che operavano all’estero; anche il suo matrimonio, celebrato nel 1846, con l’inglese miss Close, imparentata con il rappresentante inglese a Napoli sir William Temple, dava adito a tali sospetti .
L’ascesa al trono di Ferdinando II (1830-1859) alimentò le speranze dei liberali in una sua possibile azione riformatrice; l’opera di rinnovamento dello Stato, da lui promessa, ma solo parzialmente attuata, in alcuni settori della pubblica amministrazione, spinse più d’uno tra i patrioti, non solo meridionali, a pensare che egli, piuttosto che Carlo Alberto, avrebbe potuto essere l’alfiere del movimento nazionale. Ma Ferdinando II, come dimostrò durante i ventinove anni del suo regno, non sentì il problema italiano, anche perché l’adozione di una politica nazionale lo avrebbe fatalmente messo in contrasto sia con lo Stato della Chiesa, ciò che egli volle sempre evitare, sia con l’Austria, dalla quale voleva certamente sentirsi indipendente senza, però, che ciò significasse mettersi contro quella che egli sapeva essere la più sicura garanzia per la stabilità del proprio regno. Essendosi sempre rifiutato di «inalberare il vessillo italiano», egli creò le condizioni perché lo facesse il Piemonte di Carlo Alberto, al quale finirono col guardare tutti i patrioti del Mezzogiorno; il re piemontese, anche se pensava soprattutto ad un’espansione del proprio regno, ebbe tuttavia l’obiettivo di liberare l’Italia del Nord dal dominio austriaco (come appare chiaro dal suo Confiteor del 1839), al contrario di Ferdinando II che si abbarbicò alla mera conservazione del proprio Stato, che volle indipendente, isolato e reso sicuro, nelle sue frontiere continentali, dallo Stato pontificio. La proposta da lui fatta, nell’agosto 1833, a Carlo Alberto e al pontefice di dare vita a una Lega italica a tutela dei rispettivi Stati e in difesa della pace dei propri sudditi, non deve trarre in inganno, perché egli mirava non tanto a creare una struttura politico-militare da utilizzare per frenare un’eventuale espansione dell’influenza austriaca in Italia, quanto, invece, a mettere in comune gli strumenti necessari per la repressione del «contagio politico» sempre più diffuso che andava controllato e stroncato dalla collaborazione delle rispettive polizie .

Il 1848 in Terra d’Otranto

Alcuni provvedimenti adottati da Ferdinando II alla vigilia dello scoppio rivoluzionario del 1848 (abolizione dell’odiata tassa sul macinato e riduzione del carico fiscale), così come l’avvio, in alcune aree del regno, di un processo di industrializzazione e una timida ripresa dei commerci e delle esportazioni, giunsero tardivamente e non impedirono che il 12 gennaio del 1848 la Sicilia insorgesse; dopo la rivolta di Palermo, venne costituito un governo provvisorio che chiese al re di concedere la Costituzione; Ferdinando II, allo scopo di prevenire nuovi tumulti popolari, il 27 gennaio costituì un governo con la partecipazione di alcuni rappresentanti dell'opposizione liberale moderata (tra questi Carlo Poerio) e il 29 promise solennemente di concedere la Costituzione, suscitando grandi entusiasmi e speranze di rinnovamento in tutte le province del regno; concesse, inoltre, l’amnistia ai detenuti politici. A Lecce, nei primi giorni di febbraio, vecchi e giovani liberali di ogni ceto sociale (professionisti, studenti, artigiani, operai), capeggiati da Salvatore Stampacchia, inneggiarono a Pio IX, a Gioberti, a Carlo Alberto; in molti paesi della provincia si svolsero manifestazioni di entusiasmo, con sventolio del tricolore. La Costituzione fu emanata il 10 febbraio; nei giorni successivi a Lecce e negli altri paesi della provincia venne costituito il corpo delle Guardie Nazionali a cui era demandato il compito di collaborare con le guardie urbane nella tutela dell’ordine pubblico .
Nonostante venisse da più parti promessa l’adozione di importanti ed efficaci provvedimenti a favore delle classi più umili, le masse popolari si dimostrarono in genere indifferenti ai nuovi avvenimenti politici, ed anche le poche ed incerte notizie sulla guerra che si combatteva in Lombardia contro l’Austria non suscitavano un grande entusiasmo, anche perché dal diritto elettorale fu esclusa la maggior parte della popolazione; erano poche decine, infatti, i cittadini che potevano partecipare alla vita politica sulla base dei limiti di reddito previsti dalle nuove norme. Nella maggior parte dei paesi del Salento, i piccoli proprietari, i braccianti, i manovali e in genere le categorie sociali più umili, non dimostrarono grande entusiasmo per i programmi di libertà, indipendenza e unificazione perché agli stessi non corrispondeva un contemporaneo impegno per il miglioramento delle condizioni economiche e sociali; diversa, certamente, la situazione per la media borghesia, per alcuni intellettuali e professionisti ed anche per qualche rappresentante del clero i quali si attendevano, dal nuovo regime costituzionale, la possibilità di partecipare più attivamente, attraverso i propri rappresentanti, alla vita politica; le occupazioni delle terre che, nella primavera del 1848, sconvolsero alcuni centri di Terra d’Otranto (Grottaglie, Avetrana, Castellaneta, Ginosa, San Giorgio, Pulsano, Palagiano, Lizzano, Francavilla Fontana, Calimera, Cutrofiano, Galatina), e le rivolte contro gli agenti delle tasse (a Squinzano, Oria, San Pietro in Lama, Otranto), non ottennero la solidarietà dei liberali, i quali - tranne alcuni di loro che avevano aderito al programma democratico - non si schierarono a fianco delle masse popolari e dei contadini ai quali chiedevano solo di lottare in nome della libertà contro il regime tirannico .
Le elezioni per la Camera dei deputati si svolsero in due turni tra la fine di aprile e i primi di maggio; vennero eletti, per la provincia di Terra d’Otranto, Vincenzo Cepolla da San Cesario, Giuseppe Grassi da Martano, il sacerdote di maglie Francesco Saverio Giannotta, l'arcidiacono di Galatone Giuseppe Leante, Giuseppe Pisanelli da Tricase, Giuseppe Piccioli da Gallipoli, Luigi Scarambone da Lecce, Pietro Acclavio da Taranto, l’arciprete Marco Gatto da Manduria, Giovanni Semeraro e Paolo Chiara da Martina Franca; non venne eletto per soli 4 voti (ne ottenne 1.496 mentre ne occorrevano 1.500) Liborio Romano. Le idee liberali e mazziniane circolavano a Lecce grazie ai giornali Il Folletto, Troppo Tardi, Il Salentino, L’eco del Salento, la Farfalla, a cui collaboravano con entusiasmo sempre crescente Sigismondo Castromediano, i fratelli Stampacchia, Leone Tuzzo, Achille Bortone, Beniamino Rossi, Errico Lupinacci, ed altri. Nel mese di maggio si costituì a Lecce il Comitato Patriottico con l’obiettivo di coinvolgere anche le masse popolari cittadine, artigiani, bottegai e commercianti, nella difesa della Costituzione contro i tentativi del sovrano di limitarne la portata innovativa o addirittura di affossarla. Intanto notizie drammatiche giunsero da Napoli, dove il 15 maggio Ferdinando II decise di sciogliere la Camera che era stata appena eletta e di indire nuove elezioni, adducendo a pretesto la richiesta presentata da un gruppo di deputati di modificare, in senso più liberale, alcuni articoli della Costituzione; i tumulti che ne seguirono furono repressi nel sangue dall’intervento delle guardie svizzere, che lasciarono sul terreno quasi cinquecento morti. Sulle barricate di Napoli c’erano i salentini Giuseppe Libertini, Cesare Braico, Vincenzo Carbonelli, Salvatore Brunetti, Epaminonda Valentino, Beniamino Rossi e Oronzio De Donno; tra loro c’era anche la cognata del Valentino, Antonietta De Pace, che collaborava con i circoli mazziniani organizzati dal tarantino Nicola Mignogna, di cui divenne la compagna (prima di sposare il professor Beniamino Marciano di Napoli). Il giorno successivo, Ferdinando II richiamò la flotta e l’esercito che, al comando del generale Pepe, avrebbe dovuto raggiungere i campi della Lombardia dove si combatteva la guerra per l’indipendenza, anche se Guglielmo Pepe decise, insieme con un gruppo di volontari, di continuare a combattere a fianco di Carlo Alberto prima di raggiungere Venezia che continuava a resistere in armi contro gli austriaci. La Camera dei deputati venne sciolta. Dopo tali avvenimenti, i liberali leccesi decisero di armare la Guardia Nazionale della città allo scopo di difendere le libertà costituzionali contro i tentativi reazionari del sovrano; alcuni tra gli elementi più radicali, tra i quali Nicola Schiavoni, Raffaele Albanese, Gaspare Balsamo e Michelangelo Verri, proposero di costituire un Comitato provvisorio per la tutela dei cittadini, che il 19 maggio fu trasformato in Comitato Provvisorio di pubblica Sicurezza, del quale fecero parte Salvatore Stampacchia, Gaetano Madaro, Gennaro Simini, Vincenzo Balsamo, il canonico Giosuè Leone, il padre Teatino Nicola Sagarriga, Francesco Casavola, Giuseppe Piccioli, Ennio Licci, Brizio Elia (dai Borgagne), Nicola Valzani (da San Pietro Vernotico) e Nicola Schiavoni (da Manduria); altri giovani impegnati in quelle frenetiche manifestazioni erano i leccesi Paolo Vigneri, Bonaventura Forleo, Domenico Corallo e Pasquale Persico; la sede delle tumultuose e appassionate riunioni era la chiesa dei Teatini. Nella stessa notte vennero tagliati i fili del telegrafo a Lecce, Squinzano e Brindisi; tra i più attivi protagonisti del movimento rivoluzionario si distinsero il canonico Nicola Valzani (Papa Cola), Domenico Dell’Antoglietta, Luigi Cosentini (da Otranto), Vincenzo D’Arpe, Nicola Brunetti, Salvatore Filotico e l’operaio armiere Michelangelo Verri .
Il movimento si estese a macchia d’olio e anche a Gallipoli, che il 19 maggio venne espugnata ed occupata, fu costituito un governo provvisorio per iniziativa di un gruppo di patrioti fra i quali si distinsero i gallipolini Nicola Massa, facente funzioni di sindaco, Emanuele Barba, Luigi Marzo, Leopoldo e Michelangelo Rossi, Francesco Patitari e Bonaventura Mazzarella, che, in segno di protesta per quanto era accaduto a Napoli il 15 maggio, aveva deciso di dimettersi dall’incarico di giudice presso il distretto giudiziario di; accanto a loro si impegnarono nella difesa della città Oronzo Piccioli da Neviano, Michelangelo Pepe da Galatina, Giovanni Laviani da Brindisi, Gioacchino Maglietta da Marittima e il suo amico Epaminonda Valentino, che era appena tornato da Napoli dove, il 15 maggio, aveva combattuto sulle barricate in difesa della Costituzione. A Laviani e Maglietta fu affidato il compito di assicurare i collegamenti tra il Comitato Patriottico di Lecce e il governo provvisorio rivoluzionario di Gallipoli. Nei giorni successivi Epaminonda Valentino e Gioacchino Maglietta, insieme con Ercole Stasi, Giulio Seracca, Francesco Dattilo, Luigi Cavalcanti, Carlo Stefanachi ed altri patrioti del Capo di Leuca, promossero, o tentarono di farlo, la formazione di comitati provvisori in difesa della Costituzione a Presicce, Acquarica, Salve, Castrignano del Capo, Alessano, Lucugnano, Ruffano, Diso, Vignacastrisi, Poggiardo e Maglie; allo scopo di scuotere le masse contadine, i liberali promettevano anche audaci riforme sociali. Le nuove elezioni, fissate per il 15 giugno, si svolsero in un clima politico caratterizzato dagli interventi sempre più repressivi di Ferdinando II che soppresse la libertà di stampa da poco concessa e fece arrestare alcuni tra i liberali che si erano maggiormente impegnati in difesa della Costituzione .
Il nuovo intendente di Terra d’Otranto Alfonso De Caro, che sostituì Francesco Colonna, tentò in tutti i modi di impedire che, nelle elezioni del 15 giugno, venissero confermati i deputati precedentemente eletti, ma l’operazione non gli riuscì in quanto, seguendo le indicazioni dei circoli patriottici, gli elettori confermarono la fiducia agli stessi deputati, dimostrando, in tal modo, la loro decisa volontà di portare a compimento l’azione di rinnovamento iniziata a febbraio. Il 22 giugno venne diffuso a Lecce un proclama, la Protesta dei popoli delle Due Sicilie (redatto da Carlo D’Arpe e Pasquale Persico) con il quale il Comitato Patriottico denunciava come illegittimo il dominio di Ferdinando II e proclamava il diritto di difendere la città utilizzando le armi che si trovavano presso le darsene, nei depositi militari e quelle che si trovavano in possesso della Guardia di pubblica sicurezza; fu deciso, inoltre, di costituire un Governo provvisorio che avrebbe dovuto decidere l'unione del Regno delle due Sicilie allo Stato Pontificio o «l’incorporazione sollecita cogli Stati Sardi». Degli emissari vennero inviati a Bari (Eduardo Rossi), a Potenza (Giuseppe Libertini e Gennaro Simini), a Campobasso (Salvatore Stampacchia) per prendere contatti con i patrioti che si battevano per la Costituzione e decidere un’eventuale azione di coordinamento in vista della creazione di una federazione tra la Basilicata e le province di Salerno, Foggia, Bari e Lecce; da Potenza, il Libertini, animato dalle notizie che giungevano dalla Calabria, dove Domenico Mauro guidava l’insurrezione, e dalla Basilicata, dove 15.000 volontari si erano arruolati nella Guardia Nazionale, scrisse a Mazzarella di organizzare la difesa armata della città. Il 29 giugno, nel corso di un’assemblea che si tenne nella Chiesa del Rosario, venne costituito a Lecce, con funzioni di governo provvisorio, il Circolo Patriottico Provinciale di Terra d’Otranto, di cui furono nominati presidente Bonaventura Mazzarella, vice presidenti Michele Santoro da Martina Franca e Camillo Tafuri da Nardò, e segretari Sigismondo Castromediano da Cavallino, Annibale D’Ambrosio da Lecce, Oronzio De Donno da Maglie e Alessandro Pino, sindaco di Monteroni; vennero spedite circolari ai sindaci di tutti i comuni perché venisse costituito un analogo organismo comunale che mantenesse i collegamenti con quello provinciale. All’interno del nuovo organismo prevalsero gli elementi più radicali e democratici. Essendo sempre più concreta la minaccia di uno sbarco nel Salento delle truppe regie inviate da Napoli al comando del generale Marcantonio Colonna allo scopo di riportare l’ordine, il Circolo assunse la decisione di munire la città di Lecce di un’adeguata difesa utilizzando tutte le armi e munizioni disponibili, a cominciare dai cannoni che si trovavano nelle fortezze e presso le vecchie torri costiere del Salento; per realizzare tale progetto fu affidato ad alcuni patrioti il compito di prelevarli e trasportarli a Lecce. Uno dei cannoni che si trovavano nei pressi della torre costiera di Diso e al castello di Castro fu preso e trasportato a Lecce per iniziativa di Michelangelo Verri, Raffaele Anguissola (da Vaste) e Giovanni Circolone (da Poggiardo); altri vecchi e arrugginiti cannoni furono prelevati, per iniziativa di Francesco De Carlo, Vitantonio Sansonetti, Angelo Modoni e Filippo Costantini, dalle torri o dalle fortezze di San Cataldo, Torre dell’Orso, Otranto e da altre località, allo scopo di assicurare una improbabile quanto impossibile difesa della città dall’assalto dell’esercito regio; gli eventi, infatti, stavano precipitando a sfavore di quei generosi e sfortunati patrioti che di lì a poco sarebbero stati costretti ad andare in esilio o a marcire in carcere .
I dirigenti del Circolo Patriottico Salentino si resero conto che la Guardia Nazionale non avrebbe potuto resistere contro le truppe regie; il 24 luglio il presidente Bonaventura Mazzarella, oramai consapevole delle difficoltà cui il Circolo sarebbe andato incontro a causa della scarsa adesione che, in buona parte dei paesi della provincia, incontravano i suoi appelli e proclami, oltre che per la mancata raccolta di armi e munizioni, ne propose lo scioglimento, anche se gli altri componenti votarono per il non scioglimento nella speranza, o nell’illusione, che i capi militari inviati a Lecce ne avrebbero riconosciuto la legittimità costituzionale. Il 13 settembre quattromila soldati dell’esercito borbonico entrarono in città, occuparono il castello e tutti i posti di guardia instaurando un regime di terrore; nelle settimane successive molti patrioti furono arrestati, mentre altri riuscirono ad espatriare e a rifugiarsi in Grecia o in Epiro. Bonaventura Mazzarella, che si allontanò dal regno per andare a difendere la Repubblica romana nel 1849, si rifugiò in Epiro (Albania); Giovanni Circolone, Nicola Massa, Emanuele Barba, Oronzo Piccioli, Francesco Patitari, Gaspare Balsamo, Gennaro Simini, Oronzio De Donno riuscirono a salvarsi con la fuga a Corfù oppure in Albania; anche Giuseppe Libertini avrebbe raggiunto di lì a qualche tempo l’isola greca, prima di portarsi a Malta, Londra e, infine a Genova; l’altro patriota salentino Giuseppe Pisanelli, che nell’agosto 1853 sarebbe stato condannato a morte dalla Corte Speciale di Napoli, pena poi commutata in ventisei anni di prigione e lavori forzati, si rifugiò a Londra, Ginevra e Parigi, prima di trasferirsi a Torino. Tra il 13 settembre e il 30 ottobre vennero tratti in arresto, tra gli altri, Sigismondo Castromediano, Epaminonda Valentino, Michelangelo Verri, Nicola Schiavoni, Beniamino Rossi, Nicola Valzani, Enrico D’Arpe, Salvatore Brunetti, Alessandro Pino, Pasquale Persico, Carlo D’Arpe, Salvatore Pontari, Leone Tuzzo, Gaetano Madaro, Giuseppe De Simone, Paolo Tuzzo, Matteo Persico, Nicola Brunetti, Gregorio Balsamo, Vincenzo D’Arpe, Achille Bortone, Gaetano Dell’Antoglietta .
Prima della celebrazione del processo a loro carico, Epaminonda Valentino, che era stato rinchiuso, pur essendo sofferente di cuore, in una cella angusta e senza aria del carcere di san Francesco, morì, quasi soffocato, il 29 settembre 1849 all’età di trentanove anni; gli fu accanto fino all’ultimo l’altro protagonista delle vicende del 1848 Sigismondo Castromediano. A conclusione dei processi, celebrati con rito abbreviato dalla Corte Speciale che procedevano con rito sommario e le cui sentenze non erano appellabili, Bonaventura Mazzarella fu condannato in contumacia alla pena di morte, Oronzio De Donno, anch’egli contumace, e Sigismondo Castromediano a 30 anni di carcere e lavori forzati, il canonico Nicola Valzani a ventiquattro anni, Michelangelo Verri a venti, Francesco Patitari a 19 anni, Carlo D’Arpe a nove, Achille Dell’Antoglietta a quattro, Oronzo Piccioli a tre, Emanuele Barba e Salvatore Stampacchia a due, Achille Bortone a uno. Francesco Crispi, con una felice espressione, definì quello delle Due Sicilie il regno delle Due Prigioni, quella continentale e quella isolana, se solo si pensi che quasi 400.000 intellettuali finirono con l’essere schedati come attendibili, mentre più di 40.000 finirono in carcere .
Contro Ferdinando II si rivolse la rabbia dei liberali; tra loro Giuseppe Romano, che, come altri esponenti del movimento nazionale, aveva sperato che il sovrano, con le due importanti decisioni politiche assunte (la concessione della Costituzione e l’invio al fronte di un corpo di spedizione, sia pure male armato e altrettanto male equipaggiato), avrebbe potuto, forse, riscattare i diciotto anni di regno, caratterizzati da feroce repressione, assenza di una seria progettualità nel campo economico-sociale, e da un sistema in cui la pubblica amministrazione in generale si rivelava corrotta, elefantiaca e inefficiente, e quella penale in particolare «arbitraria e corrotta». E invece così non fu, Ferdinando II perse l’ultima occasione che pure gli veniva offerta per svolgere, da protagonista, un ruolo di respiro nazionale, mettendosi, insieme con Carlo Alberto, alla guida del movimento per l’indipendenza italiana, primo passo di una futura federazione che gli avrebbe consentito di salvare la dinastia; era ciò che gli consigliavano Pier Silvestro Leopardi, Guglielmo Pepe e altri patrioti napoletani; lo stesso Giuseppe Romano pensava che l’avvio di un processo di federazione tra i due maggiori regni d’Italia, nel nome di una comune battaglia per l’indipendenza, avrebbe costituito la premessa per un percorso unitario che, con la scomparsa dell’anacronistico potere temporale della Chiesa, avrebbe salvaguardato le autonomie dei due Stati federati, impedendo l’eventuale egemonia del Piemonte, che aveva, per primo, abbracciato la causa del riscatto nazionale. La scelta di campo di Ferdinando II in politica estera, con il progressivo distacco da Francia e Inghilterra e con il sempre più soffocante legame con l’Austria, così come le decisioni di sospendere la Costituzione e di sciogliere il Parlamento, spinsero il liberalismo napoletano, sia quello più moderato che quello più radicale, a guardare al Piemonte, che Giuseppe Romano, in un suo scritto, rappresentò come la «stella polare a cui erano rivolte tutte le aspirazioni nazionali». La stessa sconfitta di Carlo Alberto a Novara nel marzo del 1849 fu vissuta come una vittoria politica che apriva la strada a fare del Piemonte l’unico arbitro del destino della Nazione. Questo pensava nel 1849 Giuseppe Romano, ed era anche ciò che sostanzialmente pensava il fratello Liborio, ed era quello che pensavano moltissimi patrioti napoletani che, costretti all’esilio, trovarono rifugio a Torino (Silvio Spaventa, Domenico Mauro, Giuseppe Fanelli, Giuseppe Massari, Giuseppe Pisanelli); così pure la pensavano pure i martiri sepolti nelle prigioni (Castromediano, Poerio, Settembrini). Nonostante Ferdinando II avesse avviato una moderata politica di riforme, quali la riduzione del carico fiscale, l’avvio di alcune opere pubbliche e del primo processo di industrializzazione nei settori siderurgico e tessile, sia pure in un contesto caratterizzato dalla mancanza pressoché totale di infrastrutture e di un moderno sistema scolastico, ciò che determinò la frattura completa tra i Borbone e il mondo liberale, anche nella sua componente più moderata, furono proprio le scelte da lui compiute nel biennio 1848-1849, quando vennero poste le premesse perché il Mezzogiorno, che aveva nel 1820 iniziato il movimento nazionale, venisse alla fine conquistato, essendo divenuta l’esistenza del regno delle Due Sicilie di fatto anacronistica .

Dalla fine del governo costituzionale all’Unità d’Italia (1849-1861)

Dopo lo scioglimento della Camera e l’abrogazione della Costituzione (1849), Giuseppe Romano si rifugiò per qualche tempo in Inghilterra; al suo rientro a Napoli, venne sottoposto a regime di vigilanza; nel 1850 rischiò di finire in carcere a seguito dell’ondata di repressione generale che caratterizzò la politica di Ferdinando II dopo le vicende del 1848-1849. Furono vittime della nuova ondata repressiva non solo quanti avevano preso parte direttamente alle principali manifestazioni del biennio rivoluzionario, ma anche coloro che avevano preparato il terreno per le stesse; i fratelli Giuseppe e Liborio Romano avevano la «colpa» di avere firmato, nel 1847, la petizione con cui i liberali chiedevano al sovrano di mettersi sulla strada delle riforme e di concedere la Costituzione. Non solo, ma nella drammatica giornata del 15 maggio, quando i patrioti avevano difeso sulle barricate la Costituzione, Giuseppe si era prodigato per mettere in salvo molti deputati che rischiavano di essere travolti dalla feroce caccia all’uomo scatenata dalle truppe svizzere e dalla gendarmeria borbonica. Nel febbraio 1850, accusato di cospirazione, il fratello Liborio venne arrestato e rinchiuso nel famigerato penitenziario di Santa Maria Apparente (tristemente noto per le celle ricordate come le segrete); avrebbe dovuto seguirlo anche il fratello Giuseppe, che però si salvò grazie ai rapporti di affinità e di amicizia con sir William Temple, parente di Lord Palmerston, che gli assicurarono una sorta di immunità diplomatica; il suo arresto, infatti, avrebbe messo in cattiva luce agli occhi della non esigua colonia di inglesi presenti a Napoli, oltre che dello stesso ministro inglese, il regno di Napoli. Grazie all’amicizia con William Temple e con l’avvocato di Manduria Giacomo Lacaita, a sua volta amico dei fratelli Romano, il politico inglese William Gladstone (futuro primo ministro), che si trovava a Napoli nei primi anni cinquanta per curare la figlia, ebbe l’opportunità di visitare le prigioni di Nisida, Procida, Montefusco e Montesarchio, vere e proprie anticamere della morte; ne uscì inorridito e fece conoscere all’Europa, attraverso le lettere inviate a lord Palmerston, che a sua volta le passò ai governi e alla stampa liberale d’Europa, la drammatica condizione dei patrioti sepolti vivi in quelle prigioni; le lettere di Gladstone contribuirono ad isolare, sul piano politico e morale, il regime borbonico dal resto dell’Europa civile ed ebbero per esso il significato di una pesante sconfitta militare. Dopo due anni di carcere duro, che minò la già malferma salute, Liborio Romano venne inviato in esilio; si stabilì prima a Parigi e poi a Montpellier, prima di ritornare a Parigi, dove ebbe occasione di stingere rapporti di amicizia con Alessandro Dumas ed altri intellettuali francesi. Nel 1854 venne arrestato anche Giuseppe, accusato di cospirazione, ma fu subito rilasciato per mancanza di prove; insieme con lui venne arrestata anche Antonietta De Pace, sospettata di agire da tramite tra i detenuti, che ella aveva la possibilità di visitare perché portava loro vestiario e viveri, e gli esuli che si trovavano in Inghilterra, Francia e Piemonte. Nel giro di pochi mesi, però, e dopo un processo farsa, la De Pace venne rilasciata. Quanto ai fratelli Romano, il 1854 fu per loro un anno terribile; la malferma salute della madre, le incomprensioni degli altri fratelli rimasti a Patù e l’incipiente crisi economica che falcidiava le finanze della famiglia, spinsero Giuseppe a sollecitare il fratello in esilio a presentare domanda di grazia; Liborio firmò la petizione che, negli anni successivi, avrebbe costituito, ingiustamente, uno dei motivi di quella dura polemica che lo avrebbe amareggiato nei suoi ultimi anni di vita. Liborio venne graziato, ma, dal momento del suo rientro a Napoli e fino al 1859, la polizia borbonica non allentò la stretta vigilanza sia su di lui che su Giuseppe, fino a chiedere, nel settembre 1859, il loro arresto; furono costretti così a vivere in un regime di semi clandestinità fino al 25 giugno 1860, quando il nuovo sovrano Francesco II fu obbligato dagli eventi a concedere l’amnistia e la Costituzione e a nominare Liborio Romano prefetti di polizia e ministro dell’Interno .
L’artefice dei quello che fu indicato come il «miracolo politico» costituito dall’entrata pacifica di Garibaldi a Napoli il 7 settembre fu Liborio Romano, contro il quale, nei mesi seguenti, si sarebbero levate ingenerose critiche da parte di alcuni protagonisti del Risorgimento nazionale (Silvio Spaventa, Ruggero Bonghi, Antonio Scialoia e i salentini Giuseppe Massari e Giuseppe Pisanelli), che gli avrebbero addebitato la supplica del 1854, l’utilizzazione di alcuni capi della camorra per la salvaguardia dell’ordine pubblico (quel «tentare di combattere il male col male stesso» come scrisse lo stesso Liborio Romano), l’aver servito, da ministro, prima la dinastia borbonica, poi la compagine di governo nominata da Garibaldi e, infine, il Consiglio di Luogotenenza di Eugenio di Savoia, principe di Carignano. Egli era convinto che tanta acrimonia derivasse dal fatto che, nell’estate del 1860, quando ricopriva la carica di ministro dell’Interno, aveva stroncato il tentativo degli esuli napoletani rientrati da Torino a Napoli con la missione, affidata loro da Cavour, di suscitare una sollevazione militare ed una insurrezione popolare per poi procedere all’immediata annessione del regno borbonico al Piemonte, impedendo in tal modo che la capitale venisse conquistata da Garibaldi. In quella circostanza, Liborio Romano agì da statista, così come da statista operò nello sventare i tentativi reazionari di alcuni ambienti di corte capeggiati dal fratello del re, conte di Aquila, ponendosi egli stesso alla testa della polizia (i cui vertici aveva rinnovato), e dei popolani in difesa della Costituzione. Quando Garibaldi era alle porte della capitale, Romano creò le condizioni perché Napoli non soffrisse eccidi e saccheggi che certamente non sarebbero mancati se il partito della reazione e la camarilla di corte avessero convinto Francesco II a resistere a oltranza. E invece, il sovrano borbonico, che poco prima aveva respinto la proposta di occupare militarmente le Marche e l’Umbria per tentare di costituire una federazione col Piemonte, preferì nella circostanza accettare il consiglio del suo ministro dell’Interno e partire per Gaeta, consapevole che tale scelta avrebbe risparmiato alla città danni maggiori. Liborio Romano, da federalista convinto, pensava che il passaggio indolore dalla vecchia alla nuova dinastia avrebbe salvaguardato il diritto per l’ex regno delle Due Sicilie, all’interno dello Stato unitario che si andava a costruire, di mantenere un’ampia autonomia amministrativa e finanziaria .
A Lecce, nei primi giorni di settembre, per iniziativa di Vincenzo Cepolla, Oronzio De Donno e Bonaventura Mazzarella, fu nominato il governo provvisorio di Terra d’Otranto che avrebbe agito, come stabiliva un decreto del 10 settembre, in nome di Vittorio Emanuele II; in vista della battaglia finale dell’esercito garibaldino contro le truppe di Francesco II, partirono gruppi di volontari equipaggiati e armati a spese dei comuni e di alcuni facoltosi privati; ad ogni soldato in partenza venivano consegnati un fucile, un berretto, una camicia rossa e un po’ di denaro. Tra i salentini che parteciparono all’impresa di Garibaldi, ricordiamo Giuseppe Fanelli da Martina Franca (che era stato uno degli organizzatori della sfortunata impresa di Pisacane), Nicola Mignogna da Taranto, il medico di Alessano Francesco Ippazio Potenza, che si adoperò a favore dei garibaldini feriti, Gioacchino Toma da Galatina, Nicola Valletta da Lecce, il maggiore medico Cesare Braico da Brindisi e Vincenzo Carbonelli da Taranto. Dopo la vittoria di Garibaldi sul Volturno (1-3 ottobre 1860), Cavour, deciso a completare il programma unitario sotto la direzione della monarchia sabauda e a impedire che si realizzasse nel Sud il progetto propugnato in quei giorni da Giuseppe Mazzini di convocare un’Assemblea costituente, chiese al Parlamento piemontese di procedere all’annessione dei nuovi territori dopo il Plebiscito, come era già avvenuto per l’Emilia e la Toscana; con decreto del 10 ottobre, emanato dal Prodittatore Giorgio Pallavicino, venne fissata la data del 21 per lo svolgimento del Plebiscito, al quale avrebbero partecipato i cittadini maschi di età superiore ai ventuno anni che godevano dei diritti civili e politici; ogni elettore era chiamato ad esprimere il proprio parere, votando Sì oppure No, sulla proposta di annessione dell’ex regno di Napoli al regno dei Savoia. La partecipazione al voto fu abbastanza alta, nonostante i tentativi messi in atto da gruppi più o meno consapevoli di alcuni reazionari di favorire l’astensione (in alcuni comuni la partecipazione fu più alta di quanto si attendessero le gerarchie ecclesiastiche, impegnate, anche con il ricorso alla minaccia della scomunica, a far fallire la consultazione). Il Plebiscito costituì di fatto per le popolazioni meridionali un semplice atto di consenso passivo alla monarchia sabauda, visto che quelli che si erano tenuti in Toscana e in Emilia avevano consentito, almeno sul piano formale, la possibilità di scegliere tra l’annessione al regno sabaudo e la costituzione di un regno autonomo; anche Garibaldi aveva chiesto, per il tramite della Camera Consultiva Napoletana da lui insediata nel mese di settembre, che alle regioni dell’ex regno di Napoli venisse concessa una qualche forma di autonomia; Cavour decise invece di inviare a Napoli come Luogotenente Giuseppe Farini con il preciso compito di eliminare ogni eventuale resistenza dei democratici al suo progetto .
Alcuni giorni dopo l’entrata di Garibaldi a Napoli, Giuseppe Romano fece parte della commissione incaricata di recarsi – il 4 ottobre del 1860 – a Grottammare per incontrarvi Vittorio Emanuele e invitarlo a passare il Tronto; dopo di che i 24 membri della Commissione – tra loro l’altro salentino Oronzio De Donno – si recarono a Torino per trattare con Cavour le condizioni dell’unificazione, che non significava, come pensava lo statista piemontese – e come poi sarebbe stato – una semplice annessione .

L’impegno parlamentare di Giuseppe Romano

Il 27 gennaio 1861 si svolsero le elezioni per la Camera dei deputati; in tale occasione la stragrande maggioranza della popolazione fu esclusa dal diritto elettorale in quanto, in base alla legge, poteva votare solo il 2% dei cittadini, coloro cioè che avevano un reddito annuo pari o superiore a 40 lire; tale decisione dimostrò quale frattura si stesse creando tra la nuova classe dirigente liberale e le masse popolari. Nel Salento furono eletti deputati Bonaventura Mazzarella nel collegio di Gallipoli, Sigismondo Castromediano in quello di Campi Salentina, Oronzio De Donno a Maglie, Vincenzo Cepolla a Lecce, Liborio Romano nel collegio di Tricase (dopo il turno di ballottaggio con Giuseppe Pisanelli), Giuseppe Libertini a Massafra, Cesare Braico a Brindisi, Nicola Schiavoni a Manduria, Vincenzo Carbonelli a Taranto, Giuseppe Fanelli in un collegio del Cilento. La nuova Camera, che si riunì per la prima volta il 14 marzo, il 17 proclamò il regno d’Italia; qualche tempo dopo, fu eletto al Parlamento anche Giuseppe Romano, in rappresentante del collegio di Gallipoli (in sostituzione di Mazzarella, che si era dimesso).
Negli anni in cui fu deputato, Romano si schierò con la Sinistra parlamentare; il suo impegno si caratterizzò, come quello di Liborio, in senso meridionalista; egli si batté contro il lento processo di piemontesizzazione che negava all’ex regno delle Due Sicilie ogni forma di autonomia amministrativa, legislativa e finanziaria; in un suo scritto, si legge:

[...] non eravamo noi popolo preso, cioè conquistato [...]. Ci eravamo riuniti alle altre province per fare l’Italia, non per subire l’egemonia e la burocrazia del Piemonte [...]. In un paese che ha versato tanto sangue per abbattere il dispotismo borbonico ed il clericale, e che aveva tanto diritto a sperare un governo riparatore del suo triste passato [...] hanno spento il prestigio delle libere istituzioni e creato una estrema e generale male contentezza […] .

Quanto alla maggior parte dei deputati meridionali, il giudizio di Giuseppe era sferzante, li accusava, infatti, di «barcamenarsi a seconda del vento» allo scopo di acquisire «credito ed autorità», che non venivano utilizzati, però, a favore del Mezzogiorno, che «scontava a caro prezzo la colpa di averli eletti e rieletti» .
In una lettera spedita l’11 dicembre 1861 all’amico Casimiro De Lieto, Giuseppe Romano gli parlava delle discussioni alla Camera sulla questione romana e sui problemi del Mezzogiorno, esprimendo la convinzione, che, sia pure minoranza, i 79 deputati della Sinistra già costituivano «un’opposizione compatta». Romano si soffermava, poi, sulle conseguenze negative della politica cavouriana portata avanti dal nuovo capo del governo Bettino Ricasoli; nella parte finale della lettera si coglie un accenno al velenoso clima di calunnie che aveva tentato, vanamente, di offuscare l’immagine dei Romano, soprattutto del fratello Liborio:

[…] questa turba di vili e di impotenti non perderà l’Italia; l’avvenire è per noi e noi la salveremo, malgrado la funesta eredità di Cavour e fra non molto di Ricasoli. Verrà la quistione finanziaria, e vedremo se anche le cifre abbiano per la maggioranza diverso significato di quello che hanno per noi poveri diavoli della minoranza [...] viviamo del nostro, e soffriamo per le calunnie, che nascono e muoiono nel recinto della Camera .

Nella seduta parlamentare dell’1/2/1862, Giuseppe Romano illustrò, anche a nome del fratello Liborio (assente), un progetto di legge sulla vendita dei beni demaniali e di quelli appartenenti ai disciolti istituti di beneficenza. L’obiettivo dei Romano era quello di trasferire «alla solerzia e all’industria» dei privati i «beni di manomorta» (essendo, a loro parere, «morte al progresso» le mani di chi li amministrava, che avrebbero «condotto a morte» anche i beni amministrati); l’obiettivo era quello di ampliare il numero dei possidenti attraverso un’ampia distribuzione della proprietà terriera; nella motivazione della proposta di Giuseppe Romano c’erano, oltre a ovvie ragioni di carattere economico e finanziario, anche motivazioni di carattere politico, in quanto, distribuendo le terre al maggior numero possibile di contadini e facendoli così «assidere alla mensa della proprietà», lo Stato avrebbe legato i nuovi possidenti alla causa nazionale; la vendita, anche con pagamento dilazionato, dei beni di proprietà dello Stato e degli enti di beneficenza, avrebbe, infine, rappresentato un riconoscimento dei diritti di quel popolo che lo Stato, spesso, teneva in considerazione solo quando si trattava di chiedere sacrifici; così Giuseppe Romano concluse il suo intervento:

[…] con il loro buon senso, i nostri contadini questi beni li chiamano beni scomunicati perché vedere che questi beni non rendono quasi nulla, laddove potrebbero dar ricchi prodotti, e sollevarsi a tanto maggior valore dagli onesti loro sudori, li sconforta e li porta a credere che siano beni maledetti [...]. Restituire alla circolazione e al commercio una sì vasta massa di beni aumenta la prosperità nazionale e comporta vantaggi economici e politici [...]; in tal modo si terrà conto dei diritti del popolo, di quelli che chiamiamo nostri fratelli e concittadini quando il nemico è alle porte, e vil plebe quando il pericolo è cessato [...]. Se le leggi vogliono garantire l’ordine non bastano cannoni e baionette perché la garanzia migliore è quella di dare a ciascun cittadino una qualche parte di ciò che la Provvidenza ha destinato per tutti [...]. Creiamo dunque nuovi interessi, senza ledere gli antichi; facciamo assidere alla mensa della proprietà i nostri fratelli, e l’ordine sarà da essi meglio assai garantito che non dalle belle frasi accademiche, o dalla forza brutale [...]. Noi possiamo attirare solo i piccoli capitali sulla proprietà fondiaria, ma è necessario concedere una lunga dilazione nel pagamento .

La proposta di Romano mirava a superare le facili obiezioni di quanti temevano che la vendita «per pubblico incanto» avrebbe potuto portare ad una svalutazione dei beni; una volta fissato il loro valore legale attraverso apposite perizie, se si voleva raggiungere il duplice obiettivo di ampliare il numero degli acquirenti e di impedire la formazione di latifondi improduttivi (con la concentrazione delle terre nelle mani dei più facoltosi), occorreva prevedere la possibilità di ammortizzare il pagamento in ventisei annualità fissando un interesse non superiore al 5% (a tale proposito, sollecitava la creazione di un istituto di credito fondiario controllato dallo Stato che liberasse i futuri compratori dal «giogo degli usurai»). La terra in mano ai contadini coltivatori diretti avrebbe favorito un aumento della produzione dei beni e un «elevamento della mano d’opera, ora depressa», finendo con l’apportare quei benefici politici derivanti dall’interesse al nuovo ordine politico e costituzionale da parte del «nuovo esercito» dei piccoli proprietari e dei «pacifici contadini pronti a difendere la nuova proprietà dalle minacce straniere». Qualche tempo dopo, di fronte alle obiezioni della Commissione incaricata di redigere il testo definitivo della legge (sul quale aveva espresso parere negativo, sia perché appariva inammissibile il «concetto fondamentale della proposta», sia perché la questione avrebbe richiesto «lunghi studi, lunghe meditazioni»), Giuseppe Romano argomentò:

[…] Che esistano beni demaniali è indubitato; che bisogni venderli per la pessima amministrazione che se ne fa, è indubitatissimo; resta dunque da vedere a quali condizioni si debbano vendere, perché dalla vendita stessa si raccolga un beneficio finanziario, un beneficio economico ed un grande beneficio politico […] .

L’impegno parlamentare dei fratelli Romano arrecò, tra l’altro, alcuni benefici immediati alle infrastrutture del basso Salento; nell’estate del 1862, infatti, il governo decise di costruire un faro «di primo ordine» al Capo di Leuca e un faro «di terzo ordine» all’isola S. Andrea di Gallipoli. Fin dalla sua prima esperienza parlamentare, Giuseppe Romano si distinse per una serie di proposte di natura economico-finanziaria, insistendo egli più volte sul concetto che, per rimettere in sesto le finanze dello Stato, occorreva «salvare prima quelle dei contribuenti oberati da tre livelli di tassazione» (statale, comunale e provinciale);a tale proposito, circolava negli ambienti politici una sua frase («è assurdo sperare di mungere moneta dalle tasche dei contribuenti senza prima farcele entrare»). Oltre che con l’impegno diretto nelle aule del Parlamento, Romano sollecitava altri uomini politici a curare gli interessi del Mezzogiorno; in una lettera indirizzata all’amico Giustiniano Gorgoni il 4 maggio 1862, Giuseppe Romano, parlando del loro come del «nostro tempo che non era ancora venuto», sosteneva la necessità di lottare in Parlamento per strappare una serie di riforme utili allo sviluppo del Mezzogiorno allora dilaniato dal brigantaggio e dalla dura e feroce repressione attuata dal governo; in cima ai suoi pensieri c’era il progetto di una profonda riforma economico-finanziaria che avrebbe potuto avviare a soluzione la questione del Sud e gettare le basi per riprendere l’azione in vista della liberazione di Roma e Venezia:

[...] Io penso che tutte le preoccupazioni e le sollecitudini nostre debbono principalmente rivolgersi all’organismo interno, alla quistione finanziaria ed alla quistione economica. Con questi mezzi andremo a Roma, ed a Venezia, ma fino a che li trascuriamo, corriamo pericoli gravissimi di perder tutto .

Per quanto riguardava le battaglie da sostenere in Parlamento, egli sollecitava l’amico Gorgoni a «battere il ferro rovente della disorganizzazione portata nell’amministrazione civile» e nella stessa Guardia Nazionale dalle «sconsigliate impostazioni piemontesi»; c’era bisogno di riformare la legge municipale e di «mandare via» dalle province meridionali «tutti i sapienti piemontesi» i quali, non conoscendo la realtà del Mezzogiorno, avevano dimostrato di non saperle amministrare. Giuseppe riprendeva le idee e i progetti che il fratello Liborio aveva presentato a Cavour nella famosa lettera del 15 maggio 1861; bisognava continuare la lotta contro la piemontesizzazione del Mezzogiorno d’Italia, denunciare lo «sperpero scandaloso della finanza», contro cui i deputati meridionali della Destra, con la loro «colpevole condotta», non si erano battuti, occorreva ridurre la spesa per l’istruzione pubblica se la stessa doveva risolversi (come stava avvenendo) in «gratuiti regali ai sedicenti professori». Non che Romano fosse contrario ad allargare le basi dell’istruzione a favore di una sempre più estesa fascia della popolazione, anzi sollecitava finanziamenti a favore di comuni e province perché mettessero in piedi un adeguato sistema di scuole primarie e secondarie; criticava però il sistema di reclutamento degli insegnanti, d’accordo in questo con le critiche che Liborio aveva mosso al ministro Francesco De Sanctis per la scelta dei professori dell’Università di Napoli, che non erano, a parte qualche eccezione, delle «celebrità note per le opere pubblicate». All’amico Gorgoni, Giuseppe Romano chiedeva inoltre di impegnarsi per sollecitare la realizzazione delle indispensabili opere pubbliche (strade, porti e ferrovie), interventi di bonifica e irrigazione delle terre, una lungimirante politica a favore del credito fondiario e agrario; quanto ai lavori pubblici, quelli più urgenti riguardavano – a suo parere – innanzitutto il settore stradale e quindi quello ferroviario; nella parte finale della lettera-documento, Romano auspicava che il nuovo governo presieduto da Urbano Rattazzi dimostrasse comprensione per le proposte che egli e Liborio gli avevano presentato; altro capitolo doloroso per il Mezzogiorno era quello delle tasse «ingiuste ed infruttifere», che potevano essere diminuite attraverso una sapiente riduzione della spesa pubblica:

[...] Gridate sulle opere pubbliche, di bonifica e di irrigazione per utilizzare i tesori di tante terre, e di tante acque che si perdono. Gridate sulle istituzioni del credito fondiario e del credito agrario. Gridate perché si facciano una volta le strade comunali e provinciali perché le future ferrovie non rimanessero inutili e rovinose pel difetto delle strade ordinarie, gridate per la formazione dei porti e per il collegamento organico tra essi e le ferrovie <che> debbono farsi per vedute politiche, ed economiche, ma il farle a rompicollo, e spingere la finanza alla bancarotta significa dimenticare che le ferrovie sono il culmine, non il principio delle opere pubbliche [...]. Gridate contro le tasse sconsigliate, inopportune, ingiuste ed infruttifere e mostrate come non per la via delle tasse, ma delle economie si ristorano i mali della finanza [...]. Al Re ed a Rattazzi abbiamo fatto bene, e con entusiasmo, la parte nostra, e Liborio ed io abbiamo scritto e presentato un memorandum sulle presenti nostre condizioni. Attendiamo ora che il Ministro attui le ottime e generose intenzioni [...] e se mai nol facesse ci rivedremo alla riapertura della Camera .

Intervenendo sul problema del brigantaggio, Giuseppe Romano ne individuò le principali cause nella mancata attuazione della legge sulla vendita dei beni demaniali, non avendo il governo, a distanza di quasi due anni dall’approvazione, provveduto a nominare nelle varie regioni periti locali, avendo invece preferito inviare da Torino persone «ignare dei luoghi, dei prezzi e delle consuetudini locali», ma anche nella politica vaticana, responsabile di «inondare di briganti» il Mezzogiorno; Romano chiedeva una reazione più ferma e decisa da parte del governo nei confronti della Chiesa e della sua «guerra spirituale» scatenata contro l’Italia:

[…] quando io ci veggo impotenti ad usare una rappresaglia contro il papa, contro il più debole dei sovrani temporali, contro un sovrano che ci attacca con la guerra spirituale, con ogni maniera di reazioni clericali, che si collega col nostro più crudele nemico, e cospira con esso, c’inonda di briganti, io non posso immaginare come codesta politica <del governo> provvegga agl’interessi ed alla dignità di una nazione di ventisei milioni di uomini […] .

Pur convinto sostenitore di un’efficace lotta al brigantaggio, Romano non approvava le misure eccezionali che il governo si accingeva a varare; egli rivendicò sempre la centralità del Parlamento nell’approvazione delle leggi, ritenendo incostituzionali gli atti approvati con forza di legge da speciali Commissioni o dallo stesso governo; si unì alle proteste di alcuni deputati meridionali (ad esempio Giuseppe Ricciardi e Luigi Miceli) contro le fucilazioni sommarie di presunti briganti; nel corso di un violento alterco tra Nino Bixio (che accusava il governo di versare il sangue di tanti poveri infelici) e Giuseppe Pisanelli (che replicò che nessuno, nel Parlamento e nel governo, voleva «fare l’Italia col sangue né approvare un sistema di sangue»), Romano interruppe il discorso del deputato salentino con una frase lapidaria («chi non lo proibisce lo permette») che creò imbarazzo in molti esponenti del governo presenti in Aula .
Un altro tema su cui Giuseppe Romano tenne desta l’attenzione del governo fu quello dell’amministrazione della giustizia; da valente avvocato di grande e provata esperienza, egli stigmatizzò sia le condizioni pietose in cui si trovavano la giustizia penale e quella civile, sia l’abuso della carcerazione preventiva, un sistema da lui giudicato «non conforme né alla legalità, né alla giustizia né all’umanità» e indegno di un popolo libero; si batté, inoltre, per l’abolizione della pena di morte; nel corso di un intervento alla Camera in occasione del dibattito sul brigantaggio, egli, ricorrendo anche all’arma dell’ironia, dichiarò:

[…] abbiamo giudici propriamente detti, abbiamo i giudici ascoltanti, forse per distinguerli da quelli che sono sordi, i giudici aggregati, i giudici soprannumerari ed i vice giudici; e se la cosa procedesse coll’ordine attuale, temerei che giungeremmo forse ai giudici fac-simili, a giudici di altra risma e di altra natura […]. <Eppure> oggi le prigioni rigurgitano di cittadini che ammassati in esse in modo che fa fremere l’umanità, attendono di essere giudicati, per cominciare ad espiare la loro pena, se rei, assoluti e messi in libertà, se innocenti. Questo stato di cose […] non è degno di un popolo libero .

Se il governo investiva poche risorse per il riordino del sistema giudiziario, non lesinava però di gonfiare i bilanci con tutta una serie di spese di rappresentanza che a Romano sembravano veramente eccessive, a fronte di un sistema impositivo che oberava ogni oltre limiti i cittadini; così argomentò le proprie posizioni nel corso della discussione sul bilancio dello Stato, alla voce spese di rappresentanza per i prefetti e per i militari (di queste ne chiedeva la soppressione):

[…] spendere il denaro degli infelici contribuenti in desinari ed in feste, mi sembra che sia non che stolto ed inconsiderato, poco morale […]. Io non ho ancora appreso che sia presso i popoli più rispettato e che abbia maggiore dignità il ricco che spende il suo denaro ed occupa il suo tempo in pranzi ed in veglie, del filosofo che nella calma del suo gabinetto studia la soluzione dei grandi problemi sociali, e ricerca i modi da rendere i popoli più morali e meno infelici […]. In tutti i tempi ed ovunque le spese di lusso hanno condotto il soldato alla mollezza, e da questa la rovina della disciplina e della dignità dell’esercito […] .

Giuseppe Romano si impegnò, inoltre, perché, a distanza di più di tre anni dall’unificazione del paese, venissero uniformate in tutto il territorio nazionale le leggi comunali e provinciali onde non mantenere in vita un sistema che penalizzava le aree del Mezzogiorno; ma chiedeva, anche, che, nel processo di unificazione dei Codici che si stava realizzando, non venissero eliminate molte «leggi buone» presenti nei Codici degli ex Stati.
In un appello rivolto ai suoi elettori il 10/2/ 1868, Giuseppe denunciò i governi della Destra che, fino ad allora, non avevano fatto nulla per «sopperire ai più urgenti problemi del paese», non la riduzione delle tasse, non l’avvio di una politica creditizia a basso interesse a favore dell’agricoltura, del commercio e dell’industria, non la riduzione degli interessi bancari, non la creazione di opportunità di lavoro per le classi più umili. Non mancò di far sentire la propria voce anche in occasione della discussione sulla legge delle guarentigie dopo l’avvenuta liberazione di Roma; il suo spirito laico lo portò ad essere molto critico rispetto al vecchio programma di Cavour libera Chiesa in libero Stato così come venne recepito dalla legge che, dal 1871, avrebbe regolato i rapporti tra lo Stato e la Chiesa fino al 1929:

[...] libera Chiesa in libero Stato altro non vuol dire nella realtà se non Chiesa padrona e Stato schiavo; il Vaticano, meno ingenuo, ci ha dichiarato guerra a morte col non possumus, con il sillabo, le scomuniche e il brigantaggio. La legge delle guarentigie ha concesso libertà di azione, privilegi e prerogative sovrane ai più aperti, più offesi, più irritati e più ferali nemici d’Italia .

Negli anni seguenti, Romano continuò a farsi portavoce degli interessi delle popolazioni meridionali militando sempre nelle file della Sinistra parlamentare; il suo impegno fu caratterizzato fino a quando fu deputato da una serie di interventi e proposte per il miglioramento delle condizioni sociali ed economiche del Mezzogiorno; è una pagina, quella dell’impegno parlamentare dell’avvocato e uomo politico di Patù, che necessita di ulteriori approfondimenti.
Che Giuseppe Romano fosse uno dei leader riconosciuti della Sinistra è attestato da una lettera di Giuseppe Garibaldi che, il 30/4/1879, lo sollecitava ad attivarsi per favorire quella «concordia della sinistra» che rappresentava l’unica speranza per la salvezza dell’Italia:

«Mio carissimo Romano, l’Italia ha bisogno di essere sollevata. Ai rappresentanti della nazione il compito. Ti prego veder a nome mio Cairoli, Zanardelli, Crispi, Nicotera e quanti amici nostri credete acciocché colla concordia della sinistra possa il nostro paese redimersi da tanti malanni. Sempre vostro G. Garibaldi» .


Salvatore Coppola

 

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Autore: Salvatore Coppola

Data di pubblicazione: 20/08/2022

Testata: Giuseppe Romano

 
 
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