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Articolo giornalistico dedicato a Don Liborio Romano, raccolto da Giovanni Spano

Titolo: Parlare bene di don Liborio Romano

Morena Calzolari di Bologna

 

Parlare bene di Don Liborio Romano

 

Parafrasando il vecchio detto “parlare male di Garibaldi”, che ironicamente ammoniva a non accennare a verità irriverenti ed offensive nei confronti di persone, autorità od istituzioni considerate intoccabili e sacre, queste considerazioni su don Liborio Romano da Patù, ragionando di opinioni dissacratorie ed irrevocabilmente negative, si possono definire un “parlare bene” di lui: un meridionalista ante litteram, l’ideatore del trasformismo politico, maestro di doppiezza, un traditore del suo Paese tradito dal suo stesso progetto, un idealista, nell’accezione più negativa di questa nobile tensione del pensare e dell’agire umano. Le origini e le ragioni di tanto astio e pregiudizio nei suoi confronti non s’intravvedono di certo nelle convinzioni e nei comportamenti, innanzitutto dell’uomo, prima che del politico. Se si accoglie l’ipotesi che il nome di Patù abbia derivazione dal termine pathos, legandone il significato alle vicende cruente subite dagli abitanti all’arrivo dei saraceni, si può accettare anche la convinzione, diffusa, che il pathos sia nella personalità e nel carattere degli abitanti di tale antico luogo. Altrettanto si può dire del suo famoso cittadino, protagonista dei fatti legati al nascere dello Stato italiano. Il giovane Liborio lascia il suo piccolo paese per recarsi a Lecce e vi rimane fino al 1810, compiendovi i suoi studi classici con solerzia ed abnegazione e delineando i contorni di un curriculum di tutto rispetto per quei luoghi e quei tempi. Il decennio francese, dal marzo 1806 al maggio 1815, aveva rinfocolato l’ardore degli animi giacobini del 1799 e fu quella l’atmosfera in cui si formò sia culturalmente che politicamente il pensiero di Romano. Ragazzo dotato, laureatosi poi in giurisprudenza a Napoli, a soli 21 anni ebbe la cattedra di diritto civile e commerciale in quella Università: un riconoscimento significativo ad un personaggio di una terra ancora avara di cultura scolastica ed universitaria. Figlio di buona famiglia, si carica di pulsioni d’alto spessore umanitario, complici i buoni maestri, gli studi e le letture, testimoniati dalla sua biblioteca, oggi smembrata e dispersa in vari luoghi di Patù. La lunga attività di cospirazione carbonara, i disincanti ed i tradimenti subiti, hanno forgiato una personalità particolare, al prezzo dei lunghi anni di reclusione ed esilio, che non è difficile immaginare come tempo dedicato all’elaborare consapevolezze e progetti, oltre che all’affinare la capacità di analisi dei comportamenti e delle necessità dei contemporanei. I successi nelle cause in giudizio, ad alti livelli, contro antagonisti potenti e di fama consolidata, derivavano da una mente brillante nell’esercizio del diritto e della dialettica. Ma è sul sodalizio con Garibaldi ed il comportamento da Ministro dell’Interno di re Francesco II, che si sono sprecate critiche e falsità. Quanto ancora da dire e da scoprire sui giorni della caduta del Regno di Napoli e quale fermento ed ambigui attori affollavano le corte. Il re partì lasciando una dichiarazione di protesta a tutti i governi ed alle potenze d’Europa, consapevole di quanto stava accadendo, della rivoluzione europea che si esprimeva nella sua forma più grande e cercava di gettare le basi di una nazione nuova, libera da tiranni e sovrani inetti: una nazione che avrebbe trovato il suo posto nel consesso europeo, assurgendo ad esempio di fratellanza e moralità. Questo era il fine, l’obiettivo: nulla e nessuno, abili manovratori, puritani dei comportamenti e moralisti del dopo e non del durante, giudici dei compiti e degli obiettivi altrui, avrebbero potuto modificare od arrestarne il raggiungimento. L’antistorico, improduttivo e ridicolo orgoglio meridionalista, attualmente in voga anche fra i detrattori di Romano, è un altro aspetto di analisi errate e poco lungimiranti sulla situazione attuale, sull’andamento socio-politico in atto e la necessità del Paese di rapportarsi con i vari Stati, anche extra europei. E’ l’incapacità di vedere la reale collocazione del sud e l’inizio del nord, non solo d’Italia. Chi denigra l’avvento dei Savoia e la realizzazione dello Stato unitario, dovrebbe recuperare dal testamento di don Liborio il senso del bene comune, l’amore per il proprio territorio e le sue genti, iniziando dal rispetto per un conterraneo che mai ha agito per mero interesse personale. La veridicità di fatti, progetti ed intendimenti del tempo di Romano, storia con la S maiuscola, richiede ancora analisi serie, non giudizi di parte, falsi storici dove si confondono perfino i re francesi: Carlo Magno con Carlo il Calvo, che tanto è presente nel passato di Patù, per intenderci, e per sottolineare le pericolose inesattezze del racconto storico. Luoghi comuni ed informazioni errate, più o meno casuali, non hanno dato all’opera ed alla figura di Romano le giuste contestualizzazioni, commenti e riconoscimenti; ancora c’è da dire, smentire ed offrire scuse, da parte della mediocrità, alla grandezza. Per dirla con parole sue: “sono le piccole menti che odiano la luce del vero (..)” In questo periodo di analisi spesso più di tipo giornalistico che storico, in cui è stata coniata ed avvalorata l’infelice espressione: “solo i cretini non cambiano mai opinione”, anche il trasformismo di Romano e la definizione volta gabbane, dovrebbero essere rivisitati e ripensati. In tempi di assenza di responsabili e di impunità degli stessi, nella politica, nell’economia, nella finanza ed in ogni espressione dell’autorità e del potere, il passato ci consegna “un gran colpevole”, un singolo capace addirittura di manovrare il processo irreversibile di mutazione di Stati, frontiere e regimi, nonché le conseguenti ripercussioni sui destini degli italiani. Occorrerebbe riconsiderare la personalità del “patuscio” galantuomo, che ha fatto conoscere la sua terra fuori dai confini, spaziando in tutta Europa, antesignano di una tendenza che oggi trova consensi ed unanimità di convinzioni. Qualcuno dovrebbe ripensare ai giudizi astiosi, primi fra tutti i napoletani, che in una lapide in memoria lo definirono con ingratitudine un politico con due anime e due leggi morali, sentenziando addirittura che i peccati suoi sarebbero stati i destini della patria e disconoscendogli il merito di aver evitato, pur con strategia poco edificante, ma con un fine che ben supportava i mezzi, un eccidio da vera guerra civile nella loro città, nel momento della resa del re a Garibaldi. Epigrafe anche scorrettamente commentata da un eminente giornalista italiano del secolo scorso che non si è fatto scrupolo d’imputare a don Liborio una serie di responsabilità e comportamenti, sovrastimando le intuizioni del popolo napoletano e, con sommaria conoscenza dei fatti, commentando le sue sorti di politico. Se si volesse imputare la fine di una carriera ad un insuccesso elettorale, bisognerebbe valutare le 400.000 preferenze, ottenute all’indomani della sua candidatura al Parlamento unitario: un consenso plebiscitario all’ennesima potenza, anche in considerazione dei partecipanti e degli aventi diritto al voto. Un altro commento astioso e fuori luogo, quindi, generalista, superficiale: chi fece cosa, cosa capì un popolo e cosa non fece un altro, come se ad essi fosse demandato un potere decisionale monolitico, dinamico ed operativo. Davanti alla fine di una dinastia che inevitabilmente doveva lasciare posto al nuovo, la massa era ben lungi dal poter capire le dinamiche, gli intrighi internazionali ed il lavorio dei faccendieri della politica asserviti al Cavour, decisi al cambiamento. E rispetto allo statista piemontese, l’agire di don Libò è un esempio di limpidezza; da lui convocato, gli rispose con una lunga lettera, un documento fondamentale sul suo modo pensare e rapportare la realtà del meridione al mutamento avvenuto, sui problemi delle sue genti che, forse unico fra i suoi conterranei, portò all’attenzione del grande piemontese, deus ex machina del nuovo Stato. Ne ricavò il complimento di essere un grande meridionale, espressione che avrebbe dovuto garantirgli la riconoscenza ed il plauso dei connazionali. Pure di coloro che, vantandosi meridionalisti post-litteram, in modo poco edificante e quasi irriverente, mettono a repentaglio orgoglio di appartenenza e senso di bene comune: un patrimonio non solo di luoghi, beni artistici, architettonici e di istituzioni, ma di gesta, pensieri e scritti di un salentino, da parte di salentini o di pugliesi in genere. In tale epistola, riletta con abilità di studio ed analisi dal punto di vista dottrinale della scienza della politica, vi si trova l’essenza del suo pensiero e vi si può riscontrare anche il suddetto pathos che è nel Dna dei suoi conterranei, lo spirito dei leucani, di stampo filosoficamente greco. Occorrerebbe rileggere il dispositivo della sentenza di condanna dell’imputato, una vera revisione del suo processo, da cui tanti testimoni, forse correi e complici, sono usciti indenni nella reputazione e nella memoria. Definire Romano maestro di compromessi, manipolatore di persone e situazioni, è mettere in ombra, se non addirittura occultare, caratteristiche personali e culturali ancora da conoscere a fondo. Tante responsabilità sottaciute e molti personaggi si dovrebbero interfacciare a don Liborio: in primis gli altri ministri in carica, bellamente sdoganati ed ignorati, poi le altre figure altrettanto decisive, rispetto agli eventi. Non sarebbe difficile trovare veri esempi di vanità, edonismo, opportunismo e disonestà, sia fra i cortigiani del re che fra quelli del potere contemporaneo.

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Autore: Morena Calzolari

Data di pubblicazione: 31/01/2018

Testata: Veretum concorso letterario 2017

 
 
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