L’oblio e il silenzio Ritorno su Liborio Romano - Giancarlo Vallone
L’oblio secondo Liborio Romano, e l’oblio su di lui
Conosciamo di Liborio Romano, a prescindere dai suoi molti scritti politici minori, due opere di memorialistica, elaborate sul finire della sua vita, Il mio rendiconto politico e le Memorie politiche, entrambe pensate e ripensate, e destinate a sostituirsi l’una all’altra. Non è difficile immaginare il perché di questi ripensamenti e sostituzioni, e nemmeno è difficile comprendere la ragione della mancata pubblicazione, in vita dell’autore, di queste importanti opere, e nemmeno del fatto, non comune nella memorialistica, del loro ricco corredo documentale.
Nel Rendiconto (così lo indicherò in via breve), già in prima pagina, campeggia il detto del profeta “et facta est veritas in oblivione” (Isaia 59,15), e sia nel Rendiconto che nelle appena successive Memorie, l’auspicio dell’oblio, del “poter vivere dimenticato ed oscuro”1,racchiude la speranza d’una verità a venire: «una benevola ricordanza» di lui «e più tranquilla e più serena»2. All’oblio, dunque, Romano, affida il compito forse di lenire la sua quotidiana cognizione del dolore, la violenta, costante, plurale denigrazione del suo nome e della sua opera, che gl’infliggono i borbonici, i cattolici integralisti, gli uomini della Destra, così puri e probi nella loro coscienza italiana, e anche alcuni della Sinistra; eppure c’è in lui la riposta convinzione d’aver fatto qualcosa che potrà – e forse dovrà – nel futuro, essere pensata nel segno del bene: questo avverrà al tacere delle passioni, nel loro oblio. Questa convinzione pervicace si spiega solo con il grande amore italiano di Liborio Romano, pagato a caro prezzo, e più caro di quello corrisposto da tanti redentori immacolati, per quarant’anni di dolori e di lotte. Per questo credo che nell’estate del 1860 Romano abbia scelto Garibaldi; e lo abbia, e poteva farlo, potentemente aiutato. Certo, nell’urto degli odi e dell’ira, delle accuse e delle calunnie, egli stesso, in una ridda confusa e variata di scritti, appiattirà la sua opera unitaria reinterpretandola in un amorfo e, alla fine, poco resistente, suo
1 Così scrive Romano nella lettera anonima che apre un suo sconosciuto scritto (del quale parlerò tra poco) edito a seguito di V. ALBARELLA D’AFFLITTO, Gli ultimi Borboni di Napoli al cospetto dell’attuale libertà d’Italia. Risposta alle Lettere Napoletane pubblicate da Pietro Calà Ulloa, Bari, Tipografia Nazionale, 1865.
2 Cito da L. ROMANO, Il mio rendiconto politico, Locorotondo, Angelini e Pace, 1960, p. 7; L. ROMANO, Memorie politiche (1873), Napoli, Giannini, 1894 2, p. 37. Del Rendiconto, mi pare giusto ricordare la recensione, per il resto ormai superata, di E. PANARELLO, L. Romano e il Rendiconto politico, in La Zagaglia a.III nr. 11 (sett. 1959, ma 1961), pp. 69-79.
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lealismo costituzionale3. Tuttavia non dubito – chi potrebbe farlo – che egli abbia gioito nelle fibre più segrete dell’animo il 7 settembre 1860, quando l’Italia fu una. Non tutti però amano l’Italia. Il maggiore, forse, dei nemici di Romano, il borbonico Pietro Calà Ulloa, scrive di lui, alla notizia della sua morte: «È morto Liborio Romano. La storia sarà a lui severissima. Fu di belle forme, di vivo ingegno, di facile eloquio»4. Il nemico intransigente è certo di quale sarà il giudizio della storia su Romano; ed è certezza opposta alla convinzione dello stesso Romano; ma sia Ulloa che Romano non dubitano che la storia, sul punto, si pronuncerà. Invece è proprio contro questa pronuncia che si attivano i più sottili e subdoli nemici di Romano. Quel che sperano di negargli è, appunto, l’accesso alla storia, il diritto alla memoria; e lo fanno con evidente successo, perché Romano per interi e lunghi decenni – interrotti solo di recente – è scomparso dalla storia dell’unione di Napoli all’Italia, o vi ha ottenuto una dimensione per nulla consona al ruolo da lui effettivamente prestato in quella stagione. Questo oblio, così diverso da quello da lui auspicato, gli è stato prontamente comminato dai suoi nemici meridionali e ex esuli o, per ironia, ‘martiri’, come Bonghi e altri, ma in particolare da Massari, con la accusa di “improbità politica” contenuta nella interpellanza svolta appunto dal Massari il 2 aprile 1861 nel Parlamento
torinese e in assenza di Romano5. L’improbità politica imputata sarebbe nell’essere stato il Romano ministro nella Dittatura di Garibaldi dopo esserlo stato di Francesco II; ma al di sotto di questo, la colpa è forse soprattutto nell’aver aiutato Garibaldi da ministro del Borbone, e più ancora, di occupare uno spazio politico, e un ruolo istituzionale, che altri vorrebbero occupare. In realtà è possibile documentare che una tale accusa nasce da più lontano del 2 aprile 1861, e in questa maggior distanza, si coglie senza difficoltà alcuna il nucleo intimo e vero dell’odio costante dei ‘martiri’ verso Romano, e la motivazione prima di ogni accusa. Nel supplemento de Il Nazionale (diretto a Napoli dal Bonghi) del 7 Settembre del 1860, quando cioè
3 Offro questa prospettiva già in G. VALLONE, Ministero e parlamento nell’unione di Napoli all’Italia, in Bollettino storico di Terra d’Otranto 6 (1996), pp. 167-301. Questo scritto costituisce un anticipo, assai ristretto, pur contenendo un’indagine iconografica e parti non ricomprese, del mio volume Dalla setta al governo. Liborio Romano, Napoli, Jovene, 2005.
4 P.C. ULLOA, Un re in esilio, Bari, Laterza, 1928, p. 152. Quest’opera è cavata per estratti e
sunti dal manoscritto Il mio esilio, una sorta di diario tenuto da Ulloa fino al 1870, ed edita poi col quel titolo dal curatore G. Doria; questi, a pp. XXIII-XXIV della sua introduzione, dà un cenno della famiglia spagnola Ulloa venuta nel Regno, nel corso del Seicento, per offici di magistratura.Il cognome aggiunto Calà, deriva dal fatto che i primi Ulloa furono eredi del celebre Reggente Carlo Calà: F. D’ANDREA, Avvertimenti ai nipoti, a c. di I. Ascione, Napoli, Jovene, 1990, pp. 217, 250, 369.
5 La vicenda è ricostruita in G. VAllone, Dalla setta, cit., pp. 307-313, e, per un’analisi più interna, pp.
162-165. La probità ‘volgare’, quella che consiste, per Massari, nel “non rubare”, e dalla quale non è escluso il Romano, è quella stessa che in V.IMBRIANI (Fame usurpate. Quattro studi [1877], Bari, Laterza, 1912, p. 369) fa del Cairoli, una «testa di legno non volgarmente disonesta». Contro il Romano si eccita una più fine e sottile obiezione. Si tratta d’un secondo livello iniziatico di morale, che solo la Destra può misurare.
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il governo dittatoriale di Garibaldi si è appena insediato, si legge un invito a Liborio Romano a dimettersi: avrebbe così dimostrato di aver accettato il potere solo ‘provvisoriamente’ e «perché l’amministrazione non si scompigli»; in tal modo egli avrebbe fatto gran bene al paese, «perché il paese ha bisogno... di esempi di onestà e di costanza politica»6. Certamente Romano, in quei convulsi giorni, è al centro di pressioni e attacchi da ogni direzione, e anche da parte azionista7, ma quello che gli viene dai ‘martiri’ è assai più subdolo e intenzionato. Già in quest’articolo l’onestà e la costanza politica sarebbero altrui, e non di Romano (o di Giacchi, o di de Cesare); e in verità Romano si dimetterà, con tutto il ministero dittatoriale di lì a poco: una prima volta il 10 settembre, senza l’accettazione di Garibaldi, quindi il 22 settembre; e dunque ogni addebito dovrebbe cessare, perché il fine è raggiunto, e gli spazi sono liberi; ma poi Romano riemergerà al potere luogotenenziale, e gli attacchi ricominceranno, perché è Romano che non deve salire al potere. E si giunge al 2 aprile del 1861, e all’accusa di Massari. Ora questa accusa è un vero capolavoro d’ambiguità, non solo per la sua sofisticata concertazione che inizia a mostrarsi dalla stampa periodica nel gennaio 1861, già a ridosso delle prime elezioni politiche al Parlamento italiano di Torino8, ma proprio perché proviene da Massari, cioè da colui che il 2 agosto del 1860, quando Romano è già da tempo Ministro dell’Interno e di Polizia del Borbone, scrivendo a Leopoldo Galeotti, aveva affermato: «che Napoli e Sicilia imitino il senno toscano. Non oso sperare che a Napoli sorga un Bettino (Ricasoli), ma mi contento se Liborio Romano saprà fare qualcosa di bene»9. E Romano, in effetti, farà, e lo farà come ministro del Borbone, al quale tanto il Cavour quanto il Massari si rivolgono con chiara coscienza di quel che implica la loro richiesta, dato che la posizione di Romano non è per nulla assimilabile a quella di Ricasoli o di Farini, i quali emergono al potere quando i vecchi Regnanti sono in fuga o sconfitti; lo farà, benché non proprio come avrebbe voluto Cavour, e lo farà senza scomparire, come avrebbe voluto Massari; e sembrano queste, e non altre, le sostanze riposte della sua improbità politica. Contro di essa il Massari non cessa di prodigarsi e in una nota lettera dell’otto marzo 1863 indirizzata all’altro nemico di Romano, lo Spaventa, scrive: «in Lecce serpeggia sordamente il murattismo, e v’ha chi pretende
6 Il brano si legge, più largamente, in e. CorVAGliA, Prima del meridionalismo. Tra cultu- ra
napoletana e istituzioni unitarie: Carlo de Cesare, Napoli, Guida, 2002, pp. 178-180:180 nt. 38,con commenti e riflessioni del tutto condivisibili.
7 Il quadro è ricostruito in G. VAllone, Dalla setta, cit., pp. 296-300 (dove uso la frase de
Il Nazionale).
8 Può ancora essere utile, appunto per gli stralci riprodotti dai giornali, G. Ghezzi, Saggio
storico sull’attività politica di Liborio Romano, Firenze, Le Monnier 1935, pp. 184-187, solo
sintetizzati in G. VAllone, Dalla setta, cit., p. 305.
9 La lettera è in r. CiAmPini, I Toscani del ‘59. Carteggi inediti, Roma, Ed. di Storia e Let-
teratura, 1959, p. 153, ed è ben convergente con quella celebre del Cavour a Romano del 31 luglio (la quale è ricordata e reinterpretata proprio da G. mAssAri, Il conte di Cavour. Ricordi biografici, Torino, Botta, 1873, p. 382) e che si legge nel Carteggio Cavour-Nigra, vol. IV, Bologna, Zanichelli, 1929, p. 119. G. VAllone, Dalla setta, cit.,p. 245.
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che i promotori di esso siano i fratelli Liborio e Giuseppe Romano. Hanno costituito in Lecce una società intitolata “Gli Amici del Governo” i cui adepti giurano sul pugnale. Dio salvi il governo da questi amici» con tanto di incitamento ai prefetti10. L’allusione al murattismo, in particolare di Liborio, è semplicemente una coloritura al suo autonomismo ormai conclamato11; quanto al resto, il giuramento sul pugnale è un remoto uso iniziatico, e potrebbe non sorprendere nell’antico settario Romano che, possiamo dirlo con certezza, fu certamente in Terra d’Otranto «nell’anno di sangue carbonaro», il 181712; ma l’allusione ai pugnali e l’incitamento ai prefetti è, nel 1863, assai più surdeterminata. In quella data è trascorso da pochi mesi quel primo ottobre 1862, quando a Palermo, «alla stessa ora, in diversi punti della città tra loro quasi equidistanti, una stella a tredici punte sulla pianta di Palermo, tredici persone venivano gravemente ferite di coltello, quasi tutte al basso ventre»13: nasce il mistero, e l’incubo, dei ‘pugnalatori’. Si tratta d’un mistero che nessuno ha mai davvero risolto, anche se il dubbio di una macchinazione al fine di una qualche restaurazione borbonica, data la personalità di assoluto rilievo di alcuni dei presunti mandanti, è assai forte, e in questo dubbio non è poi di poca incisività il sospetto che il tutto, o molto, fosse ordito da una riposta trama governativa o almeno poliziesca. Certo è che il 17 aprile 1863, quando a Torino, nella Camera dei deputati, si discute l’interpellanza, sulla vicenda dei pugnalatori, del parlamentare siciliano del fronte garibaldino Luigi La Porta, «l’ineffabile ministro Pisanelli», ch’era per certo informato di tutto, e forse di più, si profonde solo in una formale difesa dei magistrati
10 G. VAllone, Dalla setta, cit., pp. 316-317.
11 Sembra che Romano abbia avuto qualche simpatia per il murattismo: G. VAllone, Dalla setta, cit., pp. 314-315. Conosco anche una tarda lettera (da Napoli 17 settembre 1866) di Romano a Gerolamo Ulloa, dove si ricorda un tornante dell’agosto 1860 (da collegare a L. Romano, Memorie politiche, cit., pp. 66-67) senza alcun cedimento murattiano.
12 Emerge a fatica qualche notizia dei suoi primissimi anni: un diploma del 6 agosto 1808 lo nomina ‘soprannumerario’ presso la direzione delle contribuzioni dirette di Terra d’Otranto dove il padre Alessandro era ‘controllore’ (G. VAllone, Dalla setta, cit., p. 15 nt. 1). In seguito tale carica è anche di Liborio. Secondo un documento privato, il 20 giugno 1817 i due comuni di Ruffano e Torrepaduli chiedono la revisione del catasto provvisorio dei loro territori «formato dal controloro sig. Liborio Romano»: gli errori sarebbero stati ispirati «dalla fantasia dell’agente e dallo spirito di gravare». La carica è ricordata dallo stesso Romano nella sua memoria difensiva per gli Edennisti (L. Romano, Scritti politici minori, cit., a c. di G. Vallone, Lecce, Centro di Studi Salentini, 2005, p. 15). Il fatto che nel giugno 1817 Romano abbia (forse da tempo) quest’officio, si spiega con le difficoltà economiche del padre, articola le residenze di Liborio tra Napoli e provincia (a correzione anche di quanto egli dice di se stesso: Dalla setta, cit., pp. 23 nt. 28; 61), dimostra che nel 1817, “l’anno di sangue” carbonaro, egli è in Terra d’Otranto, e giustifica la data piuttosto tarda (1819) della sua laurea.
13 Riprendo la prosa, e la ricostruzione, di Leonardo SCIASCIA, I pugnalatori, Torino, Einaudi, 1976, p. 5. Ricordo anche un articolo dedicato a Romano - Le tre anime di Don Liborio- che Sciascia ha pubblicato (1982) su La Gazzetta del Mezzogiorno, ora riedito da G. Giacovazzo, Sciascia in Puglia, Bari, Edisud, 2001, pp. 122-123.
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inquirenti, poi da lui ben presto trasferiti lontano dalla Sicilia14. Cosa vuole affermare il
Massari con la sua lettera di quei giorni, che a Lecce i Romano ordiscono una trama murattiana, se non borbonica? cosa vuole che faccia il prefetto, che istruisca un’inchiesta contro i Romano sul tipo di quella da loro subìta più volte dagli intendenti borbonici, e senza, certo, le coperture ministeriali godute dal principe di San’Elia? che siano quindi processati e condannati? Nemmeno questo riusciremo mai a sapere; ma l’odio può molto; può volere l’oblio di chi si odia, e perciò tacere su di lui. Ed è certo quest’odio che ispira Massari. Nelle sue opere storiche, che del resto glissano costantemente sull’unificazione di Napoli all’Italia, nessun ruolo è riconosciuto a Liborio Romano, che nel Diario dalle cento voci non è nemmeno citato: un modello per tutta la storiografia risorgimentale ispirata dalla Destra e rimasta poi per lunghissimo tempo a guisa della storiografia successiva. Dico della storiografia in senso proprio e scientifico, perché nell’aneddotica, nella pamphlettistica eticamente supponente, e nel giornalismo atteggiato a saggistica, Romano ha vegetato costantemente, e, anche di recente, come comodo esempio di ministro di due regimi, o traditore, o, ancor di più, come ministro della malavita. In verità l’odio di Massari si comprende meglio se lo si spiega come odio di un’intera parte politica, quella dell’emigrazione meridionale a Torino, della destra cavouriana, dei ‘martiri’ o ‘consorti’, i Poerio, i Bonghi, i Massari, che credevano di rientrare a Napoli per guidare l’unificazione, con tanto di credenziali di purezza, e che invece Liborio Romano ha privato di ogni protagonismo, e ha fatto fallire, con la scelta di Garibaldi, e con altre scelte precedenti, agli occhi scrutatori di Cavour, occupando interamente il campo dell’azione politica15. Certo un Liborio Romano ha di suo molto per essere odiato, ma si tratta di qualcosa che comunque s’aggiunge all’odio che per ragioni politiche si nutre nei suoi confronti; e del resto, anche quest’odio è alla fine incomprensibile se non si comprende la forza sociale, la legittimazione di Liborio Romano, il consenso che ha16 e che, perciò, è alla fine incomprensibile se non si fa conto, e mai lo si fa, dei liberali locali, quelli cioè che si riconoscono in lui17, perché sono in Napoli o in altri nuclei abitati importanti o meno importanti, e ci sono almeno dai moti di Palermo dell’aprile 1860, cioè da quando conta esserci, o da prima, e temono l’alleanza del Borbone con la plebe minuta, temono, non senza ragione, la santafede, apprezzano le riforme romaniane della guardia nazionale, dei decurionati, dei sindaci, degli
14 L. SCIASCiA, I pugnalatori, cit., pp. 63s., 88s.
15 Sugli ex esuli, le loro idee, in verità poco concrete, e metodicamente affossate da Romano, e il rancore contro di lui: G. VAllone, Dalla setta, cit., pp. 194-197; 213-214; 225-227, 240-243; e sulla loro supponenza: pp. 213, 218, 222, 228, 300.
16 Sulla popolarità di Romano, dalla sua assunzione al ministero costituzionale in poi: G. VAllone, Dalla setta, cit., pp. 242, 291, 296, 302-307.
17 Sui liberali ‘locali’, la diffidenza o la presunzione o altro, degli ex esuli verso di loro, e il consenso loro verso Romano: G. VAllone, Dalla setta, cit., pp. 191, 213, 217, 225, 228, 230-231, 235, 243-244.
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intendenti18. Lo stesso Cavour, nella sua prima lettera al Romano, sottolinea «l’in- fluenza immensa ch’Ella esercita sui suoi concittadini». Non si tratta di poche centinaia di persone; questi liberali sono legione. Sappiamo, ed è opportuno ricordarlo spesso, che nell’Italia meridionale la numerosità dei liberali è più alta che in qualunque altro Stato preunitario, ed è per questo che si pensa ad una “iniziativa meridionale” per un moto unitario19, come lo stesso Mazzini ha a lungo creduto, e ha tentato nel 1832 e 1833. Ora questa larga platea apprezza Romano non solo perché lo sente emerso dal proprio contesto sociale e dal proprio stesso travaglio, e nemmeno soltanto perché le sue misure un poco garantiscono contro l’ennesima, ritenuta immancabile, ritorsione borbonica, ma perché questa sicurezza è anche una sicurezza nella libertà,e garantisce la libertà stessa, assai più della costituzione, concessa ancora una volta dal Borbone, e dà fiducia nella libertà attuata e in quella da attuare. Si tratta, in verità, d’un grande terreno unificante, il terreno delle libertà, sul quale il Borbone non ha nulla di credibile da dire o da fare, mentre Romano, che su quel terreno ha lottato, con tanti altri, per quarant’anni, è credibile ed è creduto. E su quel terreno, non regge più la distinzione tra Stati, o antichi Stati, perché quel terreno non è loro, ma è il terreno dei diritti ‘preesistenti’ ad ogni forma statale, che possono ben definire, e cioè unificare, questa preesistenza – e lo faranno – nel senso di una nazione italiana che ha il diritto di vivere in forma unitaria20. In fondo è quel che afferma- va la storiografia risorgimentalista, anche risalente, indicando l’Unità come innesto tra libertà e nazione; ed è a questa larga e attenta platea ‘italiana’ che sempre si è
18 Ho sostenuto che queste operazioni ministeriali mirano anche ad agevolare la risalita di Garibaldi verso Napoli dopo lo sbarco in Calabria del 20 agosto: ora una affermazione di P. Lacava che rievoca alcune vicende di quei giorni, ed una sua triangolazione con Romano e Garibaldi, dimostrerebbe, in certo modo, tutto questo; un brano si legge in S. Coppola, In difesa di Liborio Romano in “...giudicate sui fatti”. L. Romano e l’Unità d’Italia, Galatina, EdiPan, 2012, pp. 61-101: 73 (con rinvio incongruo al fondo archivistico); si tratta di vicende che hanno piena coerenza con quanto in G. VAllone, Dalla setta, cit., pp. 265-267. Nello scritto di Coppola si fa uso di materiali romaniani inediti: dall’Archivio Feltrinelli in Milano diverse lettere a M. Macchi (pp. 80-101, individuate e trascritte a suo tempo dal compianto A. Ferraro); dal Museo Centrale del Risorgimento in Roma alcune lettere a Mandoy Albanese (una delle quali già usata da me), una al fratello Giuseppe, e diverse pagine di memorie per le quali rinvio all’Appendice.
19 MERIGGI, Nord e Sud nell’unificazione italiana: una prospettiva transnazionale, in AA. VV., L’Italia è. Mezzogiorno, Risorgimento e post-Risorgimento, a c. di M.M. Rizzo,Roma, Viella, 2013, pp. 33, 34-35.
20 Al risorgere del dubbio storiografi sulla natura dell’unificazione del Mezzogiorno, se conquista o liberazione, in particolare Meriggi ha mostrato, dottamente, che l’Unità è liberazione almeno perché pone le condizioni anche formali per l’esercizio delle libertà politiche individuali; qualcosa cioè d’impossibile per il regime borbonico, come molti, e alcuni anche di parte ostile all’Unità, riconoscono. Si legga M. MERIGGi, Nord e Sud, cit., pp. 26-41. L’idea (liberale) della necessaria preesistenza dei diritti di libertà alla forma statale è affrontata nella Verfassunglehre di C. Schmitt; della categoria ‘preesistenza’ faccio uso in G. VAllone, Originarietà dei poteri e costituzionalismo neoguelfo postunitario, in AA. VV., L’Italia è, cit., pp. 171-188.
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pensato col negare al Risorgimento il tratto dell’operazione ‘miracolosa’ o anche della
“rivoluzione fortunata”, perché il miracolo o la fortuna, che comunque ci sono, si comprendono solo in un simile contesto, e in una capacità sociale di distinguere alla radice il vecchio ed il nuovo della civiltà21. Una capacità di critica politica che rivela nella pretesa di libertà politica, di politicità attiva, una quasi biologica fibratura partecipativa22, certamente propria dei contesti sociali avanzati, ma nell’intero Occidente ottocentesco orientato alla modernità civile. A riguardare da questo fondo, per il Mezzogiorno, il percorso dal settarismo all’Unità, si potrà forse ritenere opportuna la convinzione antica, ma ripresentata in varia storiografia, che il movimento liberale nel Mezzogiorno, altro non sia stato, dopo il 1820, che la medesima «setta che... è rinata di poi sotto forma e nomi diversi», come diceva il Ricciardi23. Tuttavia già prima è forse latente nel settarismo, o può esserlo, una sorta di costituzionalismo viscerale, l’idea d’un diritto naturale dell’individuo alla partecipazione politica. Forse è nel riscoprire nelle proprie fibre questa più riposta vocazione partecipativa, che la Carboneria, o parte di essa, abbandonerà almeno la sua maschera iniziatica e settaria, e comprenderà l’esigenza di allargare il contesto sociale in ascolto24. Certamente tutto questo non può rendere di per sé conto delle differenze risalenti o anche genetiche tra le varie formazioni settarie, e tantomeno delle diverse opzioni ideologiche progressivamente sempre più distinguibili, a volte di distinzione radicale, se si pensa agli esiti d’un Domenico Mauro, d’un Benedetto Musolino, rispetto, poniamo, a quelli d’un Liborio Romano. Eppure quando tanto differenziarsi si pone sul fondamento comune di una sorta di antropologia della libertà, acquistano spessore di campo, e prospettive storiografiche non ancora esaurite, diverse articolazioni della storia risorgimentale e della stessa maturazione ideale del settarismo. Ad esempio, una volta iscritto il movimento politico, e, al limite, la stessa mutazione di regime, in questa ambizione, o aspettativa fondante, la stessa figura del ‘voltagabbana’ pretende a buon diritto di essere misurata non sulle proprie oscillazioni, e tanto meno su un metro moralistico estraneo alla natura della storiografia, ma su quanto di profondo sottostà, se c’è, alle adesioni mutative e al trasformismo, e cioè sulla vocazione costituzionale. Questo è stato autorevolmente riconosciuto appunto per un uomo difficile
21 Tra tanti A. Codignola, Mazzini, Torino, Utet, 1946, p. 8, che indica nell’insieme sociale «una atmosfera satura di energie spirituali, di fede operosa, di vigile coscienza civica»; e ad es. G. VAllone, Dalla setta, cit., p. 173.
22 Semplifico qui l’assai complesso percorso, in teoria politica, dall’aspettativa di libertà
religiosa, all’indistinzione dei sottoposti, quindi all’esigenza di partecipazione alla decisione politica, sul quale, in particolare per i primi periodi, può ad esempio leggersi R. SCHNUR, Individualismo e assolutismo (1963), Milano, Giuffrè, 1979, pp. 89s, 92s, 103s. Con impostazione diversa, si legga J. HABERMAS, Storia e critica dell’opinione pubblica (1962), Bari, Laterza, 1977, pp. 75s., 85s., 93s.
23 G. Berti, I democratici e l’iniziativa meridionale nel Risorgimento, Milano, Feltrinelli, 1962, p. 132, con richiami anche al d’Ayala. G. VAllone, Dalla setta, cit., p. 91.
24 Rinvio a quanto scrive, ancora utilmente, come a me sembra, G. berti, I democratici e l’iniziativa meridionale, pp. 137s.
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come Liborio Romano25; ma in fondo si potrebbe estendere l’esemplificazione a non pochi altri uomini certo meno controversi26. In ogni caso resta da fissare un punto: la vocazione costituzionale d’un Liborio Romano corrisponde a quella d’infiniti altri sudditi d’un regime dispotico; manifesta, senza più remore settarie, una “sfera pubblica” che pretende di affermarsi nel modo della vita, e nella costruzione dell’unità politica, sul fondamento di un proprio diritto di libertà, che dunque non si pensa, e non è, un diritto prodotto o concesso dall’istituzione, o dallo ‘Stato’. La percezione di questa nuova “sfera pubblica” e dunque della forza incisiva e devastante, anche, della “pubblica opinione” è altissima in Liborio Romano, ch’è perfettamente consapevole della sua grande popolarità e anche assai abile custode di essa, con piena coscienza del ruolo della stampa periodica27. Dunque quando, in particolare dal 1848, i processi politici attraggono la stampa anche straniera, e in specie quella inglese, è questa sfera pubblica che entra in contatto con gli eventi processuali e con il tipo di reati imputati, e lo fa attraverso uno degli strumenti più incisivi, benché certamente non l’unico, nella formazione d’un immaginario collettivo, la stampa, appunto, che espone il Borbone ad un’opinione pubblica assai più larga ed influente della congerie di intimiditi da sentenze esemplari, che non mancarono. Tra questi processi politici, quello contro Nicola Mignogna (1855 e 1856), è indubbiamente emblematico, non solo per l’interesse della stampa europea, ma per la presenza, assai rara, tra gli imputati, di una donna, Antoniet- ta De Pace28; quel che, in un certo senso, meno sorprende è la nota testimonianza a discarico di lei prodotta nel settembre 1856, da Liborio Romano, che deponendo
25 M. Meriggi, Gli antichi Stati crollano, nella Storia d’Italia. Annali 22. Il Risorgimento, a c. di A.M. Banti, P. Ginsborg, Torino, Einaudi, 2007, pp. 541-566: 562-564. La questione è ripresa, con altri esempi di adesioni alle mutazioni di regime, anche senza vocazioni costitu- zionali, ancora da M. MERIGGi, Transizioni di regime nell’Italia dell’Ottocento, in Mezzogiorno, Italia, Europa tra passato e presente. Seminari di studio, a c. di A.L. Denitto, Galatina, Congedo, 2010, pp. 93-101: 99-101.
26 Ad esempio M. Viterbo, Un uomo discusso: Liborio Romano (1960), nella sua raccolta di scritti Il Sud e l’Unità, Bari, Laterza, 1987 pp. 455-485: 458, dice: «Marco Minghetti e Terenzio Mamiani erano stati in un determinato momento ministri del Papa, eppure dopo ebbero... cariche elevatissime nel governo dell’Italia unita.... nessuno pensò mai di tacciar l’uno o l’altro di tradimento». Si legga pure, perché indice degli umori, e delle cose, la non imparziale, ma non insincera biografia dell’integralista borbonico Pietro Calà Ulloa, scritta da V. ALBARELLA d’Afflitto, Gli ultimi
Borboni di Napoli al cospetto dell’attuale libertà d’Italia, cit., pp. 8-9.
27 Cenni frequenti a questo aspetto sono in G. VAllone, Dalla setta al governo, cit., pp. 100-101, 186-187, e altre: ma ne parlo anche nella introduzione a L. ROMANO, Scritti politici minori, cit., pp. VII-XX: XV, XIX-XX.
28 Rinvio a M.S. CORCIULO, Opinione pubblica europea e processi politici nel Regno delle Due Sicilie. Il caso Mignogna-De Pace (1855-56), in Acta Istriae 12 (2004), pp. 307-319, con largo utilizzo della stampa inglese coeva. Anche EADEM, Antonietta De Pace, “settaria” e patriota, nel contesto rivoluzionario napoletano (1848-1860), in Archivio Storico per le Province Napoletane, 117 (1999) pp. 515-536: 525-530. E G. Vallone, Dalla setta, cit., pp. 169, e ad indicem, s.v. De Pace, per i rapporti tra i due personaggi.
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mostra di ben conoscerne il contesto familiare, e che fu largamente ripresa dai periodici anche inglesi, e dunque resa da lui, che era parente di W. Temple29, con piena consapevolezza di tale indotto e della sua forza d’effetti.
Alle origini del movimento mazziniano in Terra d’Otranto: i Romano
Secondo una tradizione consolidata, Antonietta De Pace «aveva appresi i segreti
della Giovine Italia in casa del cognato» Epaminonda Valentino30.
Altrettanto consolidata è la tradizione, trasmessa, come può immaginarsi, anzitutto oralmente, che fa del Valentino «il fondatore della Giovine Italia» almeno nella provin- cia leccese31. Anche quando si è tentato di razionalizzare questa tradizione si è rimasti, alla fine nell’ambito di essa, almeno nel senso che la principale fonte in uso è comun- que la memorialistica32. In altri termini è possibile condividere la suggestione che il Valentino sia stato uno dei primi mazziniani della provincia leccese; ma, resta il fatto che si hanno notizie certe e riscontrabili della sua vita solo verso gli anni Quaranta dell’Ottocento, e fino a quando non sapremo con certezza della sua effettiva presenza in provincia nell’estate del 1833, e della sua partecipazione alla seconda congiura maz- ziniana, o almeno d’un suo legame databile – e quando – col Mazzini, bisognerà pur riconoscere che, per quanto ne sappiamo, sono stati i fratelli Romano, e in particolare
29 G. VAllone, Dalla setta, cit., pp. 97, 100.
30 P. PAlUmbo, Risorgimento Salentino. 1799-1860 (1911), da usare nella edizione curata da P.F.
Palumbo, Lecce, Centro di Studi Salentini, 1968, p. 557.
31 P. PAlUmbo, Risorgimento Salentino, cit., p. 529, ma anche pp. 416-417, 453-454 e ad indicem. Ma in che epoca sarebbe avvenuta questa fondazione? Quando nel 1833 sorge, come si vedrà, la “congrega tarantina”, è dubbio che egli fosse nel Salento, e le indicazioni del Palumbo, senza data certa, sembrano comunque riportare ad epoca successiva al 1833. Si tratta di una indeterminatezza generale. Così anche in E. Vernole, Un patriota gallipolino: Francesco Patitari (1925), in Archivio storico pugliese, 5 (1952), pp. 345-351:349. Invece lo scritto di S. COPPOLA, Epaminonda Valentino e Gioacchino Maglietta, in Presenza taurisanese a. 27 nr. 230 (5 Mag. 2010), pp. 8-9, dà riscontri per i suoi ultimi anni e può essere utile per vie esterne: Gioacchino Maglietta era cugino dei Romano, e lo stesso autore ne parla in Risorgimento salentino e
unità nazionale: i minori, in L’Idomeneo 12 (2010), pp. 117-152. Aggiungo che Epaminonda Valentino (questa sembra la forma consolidata del cognome nel primo Ottocento, mentre Va lentini è la forma più antica) era, indubbiamente, di nascita napoletana, ma apparteneva a famiglia abbiente proveniente da Copertino, nella quale si trasmetteva il nome di Epaminonda da generazioni, e trasferita nel Settecento a Gallipoli: ad es. T. Venneri, Allistini, Copertino, Lupo, 2002, p. 405 (da antichi manoscritti, integrabili con riscontri archivistici). Lo sa V. ZACCHINO, E. Valentino mazziniano di Gallipoli, in Presenza taurisanese a. 28 nr. 229 (5 Aprile 2010), p. 9, e, più largamente, dello stesso autore, E. Valentino mazziniano e martire nella sua raccolta Momenti e figure del Risorgimento salentino (1799-1861), Galatina, EdiPan, 2010, pp. 137-161.
32 m. del bene, I Mazziniani in Terra d’Otranto 1832-1874, Lecce, Guido, 1919 (si tratta d’un primo volume, rimasto unico, oltreché raro, ed opportunamente ristampato nel 2007 a Lecce a c. di A. Laporta), pp. 7-11, con manifesti intenti critici dell’opera del Palumbo.
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L’oblio e il silenzio. Ritorno su Liborio Romano
Giuseppe Romano, i primi provinciali ad avere contatti con il Mazzini e a tentare con lui il moto antiborbonico; un contatto ed un legame che non implicano, naturalmente, e va detto subito, la condivisione di ideali repubblicani o mazziniani da parte di Giuseppe, e men che mai di Liborio Romano. In ogni caso è necessario tentare di sgombrare il campo da diverse confusioni, per quanto difficile e complesso sia il tentativo. Più in generale, la questione della promozione e della prima diffusione del movimento mazziniano nelle province del Regno meridionale d’Italia è, direi per sua natura, desti- nata al dubbio, indotto appunto dalle incertezze delle tradizioni orali, della memoriali- stica e dalla ovvia, anche perché fisiologica, penuria documentale. E nemmeno aiuta a ben conoscere lo stato delle cose l’esistenza della quasi coeva e quasi omonima setta dei Figlioli della Giovine Italia di Benedetto Musolino, che un’importante voce storio- grafi ha ritenuto non solo un «movimento democratico autoctono», perciò differente (anche per l’autoctonìa) da quello mazziniano, ma anche il germe di propaggini neo- carboniche che, dopo l’arresto (1842) del Musolino, sotto la guida del d’Ayala e poi di Domenico Romeo sarebbe divenuta «la più importante e più vasta organizzazione clandestina prequarantottesca... e diffusa in quasi tutta l’Italia meridionale»33. Inoltre questa setta, portatrice – indubbia – «dell’idea di una radicale riforma sociale» (anche qui con chiara distinzione dal Mazzini) avrebbe formato in tale idea, il connotato es- senziale «del democratismo meridionale»34. Autorevolmente si è ritenuta l’attribuzione di tanta importanza a questa setta, esagerata per vari profili35; e se non si tiene conto di questo prudente avvertimento, è in qualche modo naturale sminuire la presenza di altri gruppi e movimenti, e, in particolare di quello mazziniano, ed ossequiare l’antica convinzione d’una diffusione assai episodica e lenta del mazzinianesimo nel Regno meridionale, e in particolare prima del 1848, per la resistenza, che indubbiamente ci fu, di forti e perduranti tradizioni carboniche, alle quale in fondo apparteneva, almeno per il suo vestimentum latomistico, anche la setta dei Figlioli della Giovine Italia. In Terra d’Otranto, tuttavia, ci sono tracce precoci del movimento mazziniano, che non è possibile equivocare, e che, fondate su documenti certi, consentono di porre sullo sfondo le tradizioni, e di avanzare verso altre possibilità di ricerca. L’occasione nasce dall’improvvisa, e quasi contestuale emersione, da due archivi diversi, di due fascicoli documentali; sono gli atti d’un processo penale a Lecce36, e un’inchiesta della polizia borbonica, a Napoli37, legati alla stessa vicenda e certamente connessi processualmente,
33 G. BERTI, I democratici, cit., pp. 131-132, 194s.
34 Ivi, p. 199. Sarebbe l’idea della “legge agraria”; un obiettivo finale rivelato però, agli
stessi iniziati, solo gradualmente.
35 F. DELLA PERUTA, Mazzini e i rivoluzionari italiani. Il ‘partito d’azione’ 1830-1945,
Milano, Feltrinelli, 1974, pp. 262-263 nt. 191.
36 Gli atti sono indicati e studiati da M. PASTORE, Settari in Terra d’Otranto. Con appendice di documenti carbonari, Lecce, Centro di Studi Salentini, 1967 (ma già edito a puntate nella rivista Studi Salentini dal 1960), pp. 144-147.
37 F. DELLA PERUTA, La Giovine Italia in Puglia, in Critica Storica, 5 (1966), pp. 811-819; F. DELLA PERUTA, Mazzini e i rivoluzionari italiani, cit., pp. 263-264.
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ma, almeno apparentemente, con interne diversità38: la costituzione e la diffusione d’un importante nucleo mazziniano a Taranto. Impegnando una sintesi complessa, si può dire che, nel maggio 1837, il delatore D.A. Giannotta svela alla polizia borbonica l’esistenza di un nucleo della Giovine Italia che da Taranto s’era irradiato – iniziando l’irradiazione forse dalla metà del 1836 – a Putignano e verso est a Brindisi, Latiano, Mesagne, Oria, Francavilla, e tentava di farlo verso le Calabrie. Un nucleo dunque fortemente diffusivo39. Tra i primi arrestati (sarà poi condannato il 5 luglio 1838 a 24 anni di ferri) è l’avvocato tarantino Giuseppe Casarano, che ha da poco sostituito l’altro tarantino Bartolomeo La Diana (deceduto) alla guida del gruppo. Il Casarano è costretto, il 21 luglio del 1837, a deporre, e ricorda che «circa quattro in cinque anni dietro» aveva visto parlare intensamente Bartolomeo La Diana con alcuni mercanti francesi di coperte, definiti come emissari mazziniani40. In questa descrizione sarebbe indicata l’origine del nucleo tarantino della Giovine Italia. Cumulando questa del Casarano con altre deposizioni, si apprende che i mercanti francesi passati da Taranto nel solo anno 1833, ad iniziare dal primo gennaio, sarebbero stati ben 37, con flesslone negli anni successivi, ma tra essi diverse persone erano ricorrenti: emissari mazziniani che percorrevano la Terra d’Otranto, la Terra di Bari e la Basilicata41. Ci sono, nelle ricostruzioni, delle divergenze42, ma intanto rimane accertata in modo inequivocabile
38 La diversità nasce probabilmente dalla diversa prospettiva con la quale i due studiosi
hanno affrontato la documentazione, perché questa pur provenendo da archivi diversi, sembra la stessa; tuttavia solo un confronto diretto tra i due fascicoli potrà delineare le identicità e le differenze documentali in essi presenti; ed anche comprendere la connessione processuale che lega i due gruppi di carte.
39 Ad esempio a Mesagne è affiliato il carmelitano ostunese Giovanni Calcagni, del quale sappiamo ben poco, ma che emerge spesso come promotore del mazzinianesimo nell’area brindisina, e sarà ancora sulle barricate il 15 maggio (si leggano ad indicem le opere del Palumbo e della Del Bene); si conosce un suo foglio a stampa, forse proprio legato a quel fatto del 1848: un Ricorso al tribunale dei liberali del sacerdote Calcagni. Proprio in Taranto è invece affiliato lo sconosciuto ex olivetano Giovanni Dumas (ma Duma) di Galatina (ricordato dalla Del Bene, I Mazziniani in Terra d’Otranto, cit., pp. 12-13, da Della Peruta, La Giovine Italia in Puglia, cit., pp. 813, 816, da M. Pastore, Settari, cit., p. 146: ho fatto, fin qui senza successo, alcuni tentativi per individuare qualche suo estemo biografico).
40 Seguo fin qui F. Della Peruta, La Giovine Italia in Puglia, cit., pp. 812-814.
41 Seguo fin qui M. Pastore, Settari, cit., pp. 144-145, che usa gli atti del processo della
gran Corte criminale di Terra d’Otranto del 1837, intentato contro «la Federazione della
Giovine Italia scoperta in Taranto». Ne ha minima notizia Palumbo, Risorgimento Salentino, cit., p. 416, mentre ne ha più precisa informazione e ne intuisce l’importanza, senza averlo potuto rintracciare, M. Del Bene, I Mazziniani in Terra d’Otranto, cit., pp. 8, 12. Sembra che il nutrito fascicolo sia stato sempre depositato presso l’Archivio Provinciale (poi Archivio di Stato) di Lecce: così si dice in Pastore, Settari, cit., p. 6; la stessa Pastore aveva provvisto di note con rinvii ai fondi di questo archivio l’edizione migliore del Risorgimento del Palumbo.
42 Ad esempio, per Della Peruta i mercanti francesi provengono in Taranto, “dalle Marche”; per la Pastore la osservanza mazziniana sarebbe stata introdotta «direttamente dalla Francia" non c'è una vera contraddizione. Però Della Peruta ritiene che la "mediazione di
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l’adesione mazziniana del nucleo tarantino43. E si può, forse, andare anche oltre.
Notando la data apparente del 1833, nella quale è massimo l’avvicendarsi, in Taranto,
dei mercanti francesi, è stato istintivamente detto: «all’epoca, cioè, della missione
Benza a Napoli»44. Si tratta di un’intuizione da meditare, perché tende a sottrarre
la formazione del nucleo mazziniano tarantino alla episodicità e a legarlo ad un
progetto d’insorgenza. Il progetto del Mazzini è, al solito, di spessore articolato: già
agli inizi del 1832, egli pensa ad un ‘moto’ italiano che inizi dal Regno, e che, in
ragione dei riscontri locali che Mazzini otterrà, avrebbe dovuto collegare un ‘centro’
napoletano ai ‘raggi’ provinciali, e, si badi, muoversi «per irradiazione dalle province
sulle capitali», com’egli si esprime (si badi anche a questo) agli inizi dell’agosto
del 183345. In verità, alla fine del 1832 o all’inizio del 1833, la missione di Giuseppe
Elia Benza a Napoli è già superata e travolta, nell’estate del 1832, da fughe, espulsioni
e arresti46. Tuttavia è proprio attraverso qualche filo superstite di questo primo
ordito, che Mazzini ritenta subito, e con più consistenza di uomini e di prospettive
provinciali, un moto meridionale, e fin dal settembre del 183247. Mazzini stesso, a
cose finite, in una nota lettera dell’ottobre 1833, ricorderà che il contatto fondamentale
di questa seconda fase o congiura era tenuto da lui in Napoli soltanto con «Mazza,
Romano e Mauri». Quel che si complica è, qui, anzitutto il contesto partecipativo,
perché Mauri è l’avvocato Giuseppe Mauro, parente del più noto letterato e patriota
Domenico Mauro, Mazza è Geremia Mazza, assistente nello studio legale di
Liborio Romano48, e Romano è Giuseppe Romano, anch’egli avvocato e fratello più
giovane proprio di Liborio. Si può ben dire, allora, che questa seconda fase della
congiura mazziniana, svela una articolazione ed una capacità di incidere intanto nel
contesto della città napoletana assai profondo, e ch’è connessa alla forza professionale
e sociale dei Romano, dato che ben due persone su tre del primo nucleo d’azione
commercianti francesi al mazzinianesimo», potrebbe essere stata «un artificio defensionale concordato preventivamente dai federati» per alleggerire le proprie possibili posizioni processuali, il che è, giuridicamente, poco credibile.
43 Vale, in questo senso, quanto scrive F. Della Peruta, La Giovine Italia in Puglia, cit., pp.817- 818 sulla formula del giuramento in uso nella ‘congrega’ tarantina; e M. Pastore, Settari, cit., pp. 145-146. Anche F. Della Peruta, Mazzini e i rivoluzionari italiani, cit., p. 145 nt. 295.
44 M. Pastore, Settari, cit., p. 144.
45 Sui tentativi d’insorgenza orditi dal Mazzini a Napoli, nel 1832 e 1833, rinvio alla ricostruzione analitica in G. Vallone, Dalla setta, cit., pp. 67-87 (71,79 per i pensieri del Mazzini riportati) con il richiamo alla bibliografia anteriore, e all’attento saggio del Paladino del 1924, che integra il saggio dello stesso autore Gli antecedenti ideali della rivoluzione del ‘48 nell’Italia meridionale, in Rassegna Storica del Risorgimento 10 (1923), pp. 64-86: 67-75.
46 G. Vallone, Dalla setta, cit., p. 74.
47 Ivi, pp. 74-75.
48 La informazione, nota al Palumbo, Don Liborio Romano (1909), ora nella sua raccolta Pagine del Risorgimento Salentino, Lecce, Centro di Studi Salentini, 1981, pp. 299-327: 306-307, e nel suo Risorgimento Salentino, cit., p. 434, e forse da qui passata nel saggio di Ghezzi su Liborio Romano, è messa in contesto in G. VAllone, Dalla setta, pp. 76-77.
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sono legate allo studio di Liborio: un suo assistente e poi suo fratello; non si può certo
pensare che Liborio in persona nulla sapesse49. Naturalmente accanto e insieme ai Romano è in fermento l’intero gruppo liberale, o gran parte di esso, che si muove nella capitale: Poerio, Bellelli, Dragonetti, Leopardi, e altri. Però Dragonetti e Leopardi, più che a Napoli, contano nella loro provincia di origine, e certo fin dai tempi del Benza50, e cioè negli Abruzzi, che sembra, fin d’allora, la periferia più predisposta all’insorgenza. Perché questo è il progetto: dal cerchio al centro, dalle province alla capitale. Non possiamo per nulla pensare, allora, che il moto d’insorgenza fosse ideato a Napoli per delinearsi esclusivamente dagli Abruzzi verso la capitale. Se Mazzini progetta il moto, per una seconda volta, anzitutto con quei suoi tre corrispondenti, è anzitutto per la possibilità che ciascuno dei tre ha di fungere da raccordo tra la capitale e province diverse. Il Mazza è un teramano, e la sua azione è destinata a confluire con quella degli altri, e più noti, agitatori d’Abruzzo. Il Mauro è invece calabrese, mentre Giuseppe Romano, come Liborio, è di Patù nella Terra d’Otranto. Certo, bisogna intendersi; è stato notato ben giustamente, e anch’io lo ripeto, che se uomini come Dragonetti o Leopardi o Poerio, condividono un progetto o un tentativo con Mazzini, non per questo possono essere definiti mazziniani51, e questo vale anche per i Romano, e per Liborio in particolare52, e per molti altri ancora. La considerazione non è però meramente ideologica; signifi infatti che, se pur Mazzini tenta di radicarsi in proprio nel Mezzogiorno, come mostra in modo esemplare il caso di Taranto, egli non può che accettare, per un fine superiore, un accordo, un’alleanza con liberali di antica o
nuova militanza carbonica, e dunque con la loro forza stanziale e la loro diffusione nel Regno, senza davvero sperare di ritradurli alle sue convinzioni53. I due tentativi napoletani sono comprensibili solo così. In ogni caso anche la seconda congiura mazziniana viene travolta da delazioni, riscontri ed arresti, che iniziano negli Abruzzi a metà dell’agosto 1833; Geremia Mazza è arrestato il 24 settembre54. Dell’azione di Giuseppe Mauro in Calabria poco o nulla sappiamo, certo è che fu arrestato in Cosenza e quindi esiliato55, ma par diffi credere che in quella regione il tentativo mazziniano attecchisse meno che altrove, a causa di una quasi endemica tendenza locale al democratismo egalitario, latomisticamente velato56, e quindi in sé, e per più
49 G. VAllone, Dalla setta, cit., p. 76. L’idea è sembrata condivisibile; ad es. V. Lisi, L’Unità e il Meridione. Nicola Mignogna (1808-1870), Copertino, Lupo, 2011, pp. 15-16. Qualche particolare in più si legge in G. Vallone, La congiura mazziniana del 1832-1833 a Napoli ed i Romano, in Nuova Antologia fasc. 2240 (a. 141°, Ott.-Dic. 2006) pp. 338- 348.
50 G. Vallone, Dalla setta, cit., pp. 74-75.
51 F. Della Peruta, Mazzini e i rivoluzionari italiani, cit., p. 145.
52 G. Vallone, Dalla setta al governo, cit., pp. 85-86.
53 Mi sembrano ancoravitali le riflessioni di F. Della Peruta, Mazzini e i rivoluzionari italiani, cit., pp. 143-144.
54 G. VAllone, Dalla setta al governo, cit., pp. 80, 81.
55 Ivi.
56 Rinvio qui a G. Berti, I democratici, cit., pp. 154s., 179s., 191s., 194s.
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L’oblio e il silenzio. Ritorno su Liborio Romano
profili, poco propenso all’inclinazione mazziniana, già prima del Musolino e della sua setta57, che di quel contesto sarebbe stata invece «una creazione naturale»58. Quanto a Giuseppe Romano, gli possiamo dedicare più minuta attenzione, anche perché le sue vicende in quel periodo sono state spesso descritte, benché in assenza di ogni concreto riferimento al moto mazziniano generale, il che è abbastanza sorprendente, dato che Mazzini stesso lo indica come suo referente.59 Quando a Romano giunge notizia degli arresti degli altri congiurati, egli è nella provicia barese, dove ha attivato una serie di contatti «con le persone più marcate in linea politica», e ha diffuso notizia d’una prossima rivolta in Napoli. Si rifugia allora precipitosamente a Patù, nella casa paterna; qui la gendarmeria tenta di catturarlo alle 4 di notte del 28 agosto; ma riesce a fuggire, e risalendo la provincia con appoggi a Marittima, a Martano e a Galatina, infine si costituisce a Lecce il 17 settembre con sviluppi ulteriori che qui non interessano60, salvo ad aggiungere la notizia che, per scagionare il fratello, interviene direttamente il fratello Liborio, quasi certamente con una memoria difensiva scritta61. Ora possiamo tornare per un attimo alla setta tarantina, e notare che tra la fine del 1832 e l’inizio del 1833, quando essa sorge, non è propriamente l’epoca del Benza, ma l’epoca del secondo tentativo mazziniano e di Mauro, Mazza e di Romano, anzi forse dei Romano. Il fatto poi che Giuseppe Romano si sia trovato in un primo tempo nella provincia barese, per rifugiarsi a precipizio in quella otrantina, si spiega bene anche per la sicura copertura e credito settario che in quella parte estrema della Puglia gode la sua famiglia e per l’utilità che egli aveva di creare adesioni piuttosto altrove: dunque si può congetturare, senza grandi rischi, l’esistenza anche nel leccese di grande attenzione alla prospettiva d’insorgenza. Infine sappiamo che i congiurati Mauro, Romano e gli abruzzesi sono catturati o si costituiscono tutti nelle periferie; perciò il piano mazziniano si stava attuando. Possiamo davvero credere che la cellula tarantina, promossa in piena contemporaneità con il progetto di moto, non sia stata ideazione convergente ed a sostegno? In questo senso assume profili di non condivisibilità la pur autorevole affermazione secondo la quale «la congrega di Taranto... in un primo tempo rimase pressoché isolata»62.
57 Si può concordare che la setta musoliniana non fu in attività prima del 1834: G. VAl- lone, Dalla setta, cit., p. 85 nt. 268 con rinvii. Secondo G. Berti, I democratici, cit., pp. 196- 197, l’idea della setta nacque in Musolino proprio dagli insuccessi mazziniani di quel biennio.
58 G. Berti, I democratici, cit., p. 191, con rinvii ad altri autori.
59 P. Palumbo, Risorgimento Salentino, cit., pp. 421-422; e sempre del medesimo autore, Dalle carte di don Liborio Romano (1906 ma 1907) in Pagine del Risorgimento Salentino, pp. 286-298: 294-296. Più di recente, parlando però di «presunta congiura mazziniana» e senza cenni alla base napoletana, ne ha scritto S. Coppola, Giuseppe Romano da Patù patriota e meridionalista, in Presenza taurisanese a. 27 nr. 235 (11 Nov. 2010), pp. 7-9.
60 G. Vallone, Dalla setta, cit., pp. 81-82.
61 G. Ghezzi, Saggio storico, cit., pp. 14, 68.
62 F. Della Peruta, Mazzini e i rivoluzionari italiani, cit., p. 263. Bisogna anche ricordare che l’articolazione complessa della congiura mazziniana non era ancora ben conosciuta quando Della Peruta pubblicò questo studio.
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Giancarlo Vallone
I silenzi di Liborio Romano e una sua opera sconosciuta
Può sembrare strano, ma Liborio Romano, nelle sue opere maggiori, cioè Il mio rendiconto politico (ed. 1960) e le Memorie politiche (ed. 1873), non fa alcun cenno a questi eventi, che, possiamo dirlo, avevano avuto uno dei loro principali fulcri organizzativi nel suo studio napoletano; né vi si cenna in altri scritti suoi o dello stesso Giuseppe Romano63. Del resto, già prima del sussulto mazziniano, egli, con la sua famiglia, è stato protagonista, nell’estremo lembo di Puglia, della prima stagione carbonara, e della feroce lotta settaria dei primi diciassette anni dell’Ottocento; ha vissuto l’emergenza costituzionale del 1820 e 1821 tra Napoli e Terra d’Otranto; è stato protagonista della misteriosa vicenda della setta degli Edennisti dal 1823 al 1826. Ebbene a tutti questi eventi, e ad altri successivi, in sostanza nulla o quasi è riservato nelle opere maggiori; e questo dipende dal fatto che questi suoi scritti sono inclinati anzitutto a spiegazione del ruolo politico svolto da Romano nella cruciale estate del 186064, quando è tra i maggiori protagonisti dell’unione di Napoli all’Italia65, e perciò a difesa dalle accuse di “improbità politica” che gli provengono sia da uomini di parte borbonica, sia dai suoi nemici della Destra.Tuttavia, se pensiamo ai due scritti, minori e occasionali, che egli in tempi diversi dedica alla setta degli Edennisti, e che sono indubbiamente fonte prioritaria se non unica per la ricostruzione della setta, e se notiamo poi la conoscenza impressionante di uomini e cose che emana da essi, non possiamo non riconoscere che Romano avrebbe potuto dire assai più di quanto ha consegnato alla stampa e che, in generale, egli «dice assai meno di quello che sa»66. Sceglie il silenzio, e il silenzio è diverso dall’oblio, perché l’oblio diviene, ma il silenzio è. Si tratta di una constatazione venata da rimpianto perché disporremmo del più gran libro sul Risorgimento meridionale se egli, sempre protagonista e sempre silenzioso dal 181367 al 1865, invece di scrivere memorie politiche
63 Sembrano perduti i suoi “cenni biografi che sono ricordati da Giovanni Bovio, nella prefazione alla seconda edizione delle Memorie politiche di Liborio Romano (Napoli, Giannini, 1894), p. VIII, e che anzi dovevano essere editi, con altri scritti di Giuseppe, a cura del figlio Giovanni, unitamente appunto alle Memorie di Liborio, ma non lo furono (né lo saranno in seguito: correggo in questo senso quanto in G. Vallone, Introduzione a L. Romano, Scritti politici minori, Lecce, Centro di Studi Salentini, 2005, p. VIII nt. 4). Aggiungo solo che in un suo scritto del 1848, Giuseppe Romano dice A’ suoi concittadini di Terra d’Otranto: «voi... mi salvaste dai furori della tirannide nel 1833» (ora in L. Romano, Scritti politici minori, cit., pp. 239-248: 240).
64 Ne parlo nella introduzione a L. Romano, Scritti politici minori, cit., pp. VII-XX: XII-XIII.
65 Lo si riconosce ormai autorevolmente: P. Macry, Unità a Mezzogiorno. Come l’Italia ha messo assieme i pezzi, Bologna, il Mulino, 2012, pp. 62- 68; 77-82.
66 G. Vallone, Introduzione a L. Romano, Scritti politici minori, cit., p. XIII, e pp. XIV- XV per i due scritti sulla setta degli Edennisti. A maggior ragione sappiamo assai poco anche dei suoi primi anni: come ho già detto, possiamo però affermare con certezza che nel 1817, l’anno del generale Church e della feroce lotta carbonara, egli era in Terra d’Otranto.
67 La data del 1813 è quella di una riunione carbonara nel Capo di Leuca alla quale partecipano Gaetano Romano (ch’è come dire Liborio), Valentino Valentini, il principe Ajerbo
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L’oblio e il silenzio. Ritorno su Liborio Romano
ci avesse consegnato, semplicemente, le memorie della sua vita, redatte con quella minuzia di particolari propria di alcuni suoi scritti minori. Da qui derivano considerazioni tra loro connesse: la grande efficienza storiografica degli scritti in particolare minori di Liborio Romano68, e, in conseguenza, la opportunità di ritrovarne altri, e di segnalarli. A riprova del primo profilo, ricordo che appunto attraverso gli scritti romaniani sugli Edennisti, e in forza dei tanti nomi lì disvelati, è stato possibile ricostruire la trama settaria dell’intero Capo di Leuca, e metter in luce come questa trama si articolasse per legami parentali e per connessioni o frazioni (anche traumatiche e perciò contenziose) di interesse e, da qui, per opzioni ideologiche, e avesse quasi come punto e centro impulsivo la famiglia Romano in Patù69. Certo, si potrebbe dubitare che una tale minuta e periferica ricognizione abbia un qualche nesso con gli alti concetti di nazione e di libertà che la storiografia risorgimentalista un tempo fissò, non senza indulgere a retorica, e non senza verità, per gli ideali italiani. Dove, tuttavia, comincia l’amore per questa libertà? può cominciare dalla brama del potere e dalla voglia di ricchezza e di terra?70. La risposta positiva, in concreto, è stata data da tempo e appunto studiando le continuità dalla feroce stagione settaria del Capo di Leuca fino alla incredibile estate del 1860 di Liborio Romano. Non si tratta però d’un lungo periodo e d’una lunga fedeltà ristretti a certi luoghi e a certi uomini; ritengo assolutamente convincente la proposta di fare dell’aspettativa della libertà politica, uno «sfondo più vasto», e vasto al punto da spiegare l’intera torsione costituzionale dell’Europa ottocentesca, e radicato fin dalle “categorie mentali”71. Quasi, insomma, un’antropologia delle libertà, che certo non riguarda intere popolazioni,
dʼAragona e altri: G. Vallone, Dalla setta, p. 24. Non è privo di interesse ricordare che tra i sottoscrittori per la stampa delle Opere postume di Filippo Briganti (Napoli, Porcelli, 1818, vol. II, pp. 270-277) sono presenti, tra tanti, non pochi uomini del primo carbonarismo provinciale, alcuni poi accusati di Edennismo, e comunque del giro romaniano: da Lecce Girolamo Congedo, Ippazio Carlino, Ignazio Metraja, da Marittima Giambattista Maglietta, da Patù Angelo Romano, da Morciano Valentino Valentini; anche Michelangelo Parrilli. È istintivo ricordare, anche senza voler formulare ipotesi, che a 19 anni, verso il 1782, Alessandro Romano (fratello di Angelo e padre di Liborio) avrebbe ricevuto l’incarico “di riveder le opere” del Briganti (G. VAllone, Introduzione a F. Briganti, Scritti giuridici, Lecce, Centro di Studi Salentini, 2011, p. IX nt.1). Quanto a Gaetano Romano vale per curiosità una sua “perlustrazione botanica” nel Capo di Leuca, per censimento di querce, accompagnando, con suo cognato Giuseppe Fersini, Achille Bruni da Barletta, che ne fa menzione in una sua importante lettera da Napoli (8 settembre 1861) in Rivista agronomica. Giornale di agricoltura etc. per cura di V. Corsi, vol. VI (Napoli, Stab. Tipografico, 1861), pp. 577-584.
68 Sul concetto di scritti (minori) del Romano, è stato necessario intendersi: G. Vallone,
Introduzione a L. Romano, Scritti politici minori, cit., p. XVI.
69 G. Vallone, Dalla setta, cit., pp. 15-31 (Lotta settaria nell’estrema Puglia).
70 Pretendere la libertà religiosa in un regime di pace, garantisce il godimento pieno del diritto di proprietà: per il nesso, da studiare anche in relazione al consolidamento della categoria dogmatica del diritto soggettivo, R. Schnur, Individualismo e assolutismo, cit., p. 90s.
71 M. Meriggi, Nord e Sud nell’unificazione italiana, cit., pp. 26-41: 37s.
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ma coinvolge fin nel midollo, e diffusamente, quelle parti sociali, ovunque dislocate, che sentono la partecipazione al potere, l’uso della politica, e dunque lo spiraglio delle libertà, come esigenza di idealità e, più spesso, come ambizione insopprimibile. Animati così i moti difformi nelle località e nei territori, se ne svela la tendenza unitaria come movimento politico generale per le libertà. Di più: trova linfa verace, e capace di risposta produttiva, l’attenzione al «gioco variegato dei conflitti tra partiti e clan familiari paesani» e si potenzia l’invito «a studi più vicini alla scala della comunità locale», già proficuamente impegnati per la comprensione reale della repressione del cd. brigantaggio72. Anche il metodo per operare in questa scala ridotta, è stato fissato: così l’odio del noto Valentino Valentini verso i Romano, e in particolare verso Liborio, ha ragioni varie, anche di profilo economico, e questo finisce, in lui, antico carbonaro e “ussaro salentino”, per condizionare la scelta di campo politico e farne, con tutte le ambiguità del caso, un adepto del Borbone73. Questo riferimento non è casuale, e consente di meditare più in generale: uomini come i Romano, o un Valentini, o un Luigi Mezio, bramano il potere74, sia pure il potere nella piccola comunità paesana, per il quale impegnano ogni loro forza di trazione, ogni loro aderente; ma è pur vero che la scelta di campo istintiva per afferrare il potere, è il campo delle libertà, che spesso viene abbandonato per il campo avverso, quando il primo è occupato dai competitori. Su questo denominatore indistinto delle libertà che si articola il gioco politico
delle parti già in un piccolo territorio. Si tratta però di parti complesse e bisogna anche
studiare il modo di composizione di tale complessità; e si è proposto di fissare «il quadro delle amicizie in affari o in causa; e sono (spesso) gli stessi nomi e le stesse amicizie (o inimicizie) della politica; soprattutto traspare la trama delle relazioni psicologiche, e, in esse, della incisività dei caratteri, che spiegano come un contesto familiare si unisca per non soccombere, e ne tragga, in più, la forza per proiettarsi oltre se stesso»75. Dunque l’ambito familiare, nella sua complessità anche di psicologie, descrive l’orbita aggregante degli interessi, degli imparentamenti, delle clientele (anche professionali, se la famiglia è di avvocati), e quest’orbita esprime, in buona misura, l’adesione politica di tutto un insieme. Ora nel gioco localmente ristretto della parentela, degli interessi e della professione, posti nella prospettiva del potere così spesso vissuta col ringhio partecipativo che fibra dall’interno l’austera parola della libertà, assumono incredibile importanza le allegazioni giuridiche a stampa. Si tratta d’una fonte per lungo tempo offuscata e negletta, rispetto, poniamo, alla documentazione archivistica, eppure almeno altrettanto rivelatrice: le allegazioni, se hanno ad oggetto la famiglia stessa, svelano il nucleo vitale e unificante degli interessi e dei legami parentali, ma anche la loro criticità e i punti di frattura; se misurate sull’attività professionale, mostrano invece il giro dei clienti
72 S. Lupo, L’unificazione italiana. Mezzogiorno, rivoluzione, guerra civile, Roma, Donzelli, 2011, p. 115 e altrove.
73 G. VAllone, Dalla setta, cit., pp. 26, 30 e ad indicem, s.v. Valentini Valentino.
74 Ivi, pp. 30, 31.
75 Ivi, pp. 33-34.
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e delle adesioni di un avvocato o di una famiglia di avvocati. In questo senso non rimpiangeremo mai abbastanza la dispersione delle moltissime allegazioni di Liborio Romano, e dei suoi fratelli, sia scritte da loro che per loro76; e non si tratta solo delle allegazioni loro o per loro. Comunque è destino che nuovi rinvenimenti approfondiscano il quadro; è il caso di una allegazione scritta dall’avvocato edennista e antico settario Luigi Guglielmi di San Cesario77: una Memoria per gli Signori Conjugi D.Liborio de Salvo e D. Caterina de Salvo... proprietari domiciliati in Pato contro i Conjugi D. Lorenzo Galati e D. Tommasina de Salvo proprietari domiciliati in Surano78, dove, nella concretezza dei suoi interessi, nelle sue fratture parentali, e sullo sfondo animatissimo di cose connettibili nel remoto angolo di Patù, è in evidenza quel Liborio de Salvo79, egli stesso settario, e, prima, forse, amico, poi nemico per interesse, poi ancora tra i maggiori amici dei Romano. E valgono analoghe considerazioni per altri (dalle allegazioni) scritti minori di Liborio Romano, recentemente venuti alla luce e diversi da quelli irreperibili a suo tempo segnalati80; anzitutto il Rapporto (in realtà un progetto di legge luogoteneziale) che egli, come Consigliere della Luogotenenza, ha redatto, in attuazione del decreto dittatoriale del 25 ottobre del 1860, al fine di definire nei territori la Circoscrizione della Nuova Provincia di Benevento indirizzandolo al Luogotenente principe Eugenio di Savoia per la sua emanazione in forma di decreto, che ci sarà il 17 febbraio 1861, con un seguito convulso di polemiche provinciali e anche parlamentari, a Torino, durate fino alla fine del 1861, e nei quali ad un certo punto, si affrontano, entrambi eletti deputati,
76 Ivi, pp. XIV, 116-117, 394-396; e G. Vallone, Introduzione a L.Romano, Scritti politici minori, cit., p. XIX e nt. 57. Ricordo anche l’ultimo autore che ha potuto vedere la raccolta completa in casa Romano e darne cenni concreti: G. Ghezzi, Saggio storico, cit., pp. 23-24. Torno a segnalare, tra quel che resta, l’estrema importanza dell’allegazione di Giuseppe Romano, con G. Poerio e F.P. Ruggiero, Romano contro Valentini (1837) e del Discorso per Alessandro ed Angelo Romano (1842) del solo Giuseppe Romano (Dalla setta al governo, cit., pp. 33, 40, 44). Lo stesso celebre
scritto sugli Edennisti è una allegazione giuridica.
77 P. PAlUmbo, Risorgimento Salentino, cit., ad indicem; G. Vallone, Dalla setta, cit., p. 38. Per i Fersini in affari con Alessandro Romano (Dalla setta, cit., pp. 47-51), originari di Castrignano del Capo, e forse congiunti dei Fersini imparentati a loro volta con i Romano, si legga di N. Bernardini, una recensione al Palumbo in Rivista Storica Salentina 8 (1913), pp. 304-306.
78 Edita a Bari (tip. Cannone, di pp. 76) e datata da Trani al 27 gennaio 1827, per il giudizio della Gran Corte Civile appunto di Trani. Sappiamo che proprio in quell’anno il Guglielmi era relegato in Trani perché edennista, e proprio a questa causa, e in concreto ad una sua prosecuzione, fa riferimento P. Palumbo, Risorgimento Salentino, cit., pp. 375-376, 396.
79 G. Vallone, Dalla setta, cit., ad indicem.
80 Idem, introduzione a L. Romano, Scritti politici minori, cit., p. XIX: indicavo quattro scritti irreperibili: un opuscolo anonimo (o di Romano o ispirato da lui), Le cose di Napoli e l’interpellanza Massari (ma edito in origine dal periodico napoletano La Nuova Italia del 16 aprile 1861: Romano, Memorie politiche, cit., p. 129); uno, non sappiamo se edito, Alcune parole di addio alla Curia napoletana; una Relazione e decreto per l’abolizione di alcune tasse comunali, del 1861; infine una non meglio definita Italia del Sud nel 1863.
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ancora il Massari e Liborio Romano, che difende la sua scelta con un celebre intervento
81. La nuova circoscrizione provinciale di Benevento non sarà toccata. Ha poi una certa importanza un Elogio del defunto avvocato e giureconsulto Liborio Romano82, scritto dall’avvocato Francesco Demarco83, ma certo ispirato e documentato da Giuseppe Romano. Assai più importante è invece un altro scritto, che fa seguito al raro volume di Vincenzo Albarella d’Afflitto, Gli ultimi Borboni al cospetto dell’attuale libertà d’Italia. Risposta alla Lettere Napoletane pubblicate da Pietro C. Ulloa84. Si tratta d’una appendice di 34 pagine anonime, e celate dal titolo di Documenti (esso stesso rivelatore)85. Ora, l’avvocato Vincenzo Albarella d’Afflitto (1822- 1880) appartiene ad un’antica famiglia napoletana di giuristi; è di forte spiritualità evangelica e di alti sensi religiosi, il suo odio per il Borbone o per Ulloa è assoluto, ha patito anch’egli l’esilio; ed è con Liborio Romano, come lo sono innumerevoli
81 Il testo del breve Rapporto, conosciuto anche in originale a stampa, si ricava facilmente dal web; si tratta propriamente d’un ‘documento’ direttamente legato alla attività d’amministratore del Romano, e non d’uno ‘scritto’: G. Vallone, Introduzione a L. Romano, Scritti politici minori, p. XVI. Il Massari è assai critico sulla vicenda già nella famosa interpellanza del 2 aprile1861 (anzi la costituzione della provincia di Benevento funge da presupposto all’accusa di “improbità politica” rivolto al Romano); la risposta di Liborio Romano sarà nella tornata del 15 aprile 1861 e la si può leggere in L. Romano, Scritti politici minori, cit., pp. 183-189.
82 Elogio del defunto Avvocato e Giureconsulto Liborio Romano membro del Collegio di disciplina degli Avvocati presso la Corte di Appello di Napoli dettato dall’Avv. Commend. Francesco Demarco Presidente del Collegio su indicato, Napoli, Nobile, 1867 di pp. 11. L’opuscolo è importante anche perché è stato assai probabilmente fonte di molte notizie circolanti poi sul Romano. Notevole il ricordo del suo primo praticantato giovanile presso lo studio di Pasquale Borelli; ne ho potuto tenere conto nella voce Liborio Romano in AA.VV., Avvocati e Giuristi illustri salentini dal XV al XX secolo, Lecce, Ediz. Grifo, 2014, pp. 211-213; ma non nella stessa voce nel Dizionario biografico dei giuristi italiani (sec. XII-XX), Bologna, il Mulino, 2013, vol. II, pp. 1726-1727.
La notizia dà conferma a quanto afferma il primo biografo del Romano, e cioè Giuseppe Lazzaro, Liborio Romano, Torino, Unione Tipografico-editrice, 1863, pp. 6-7 e mostra bene che tale scritto nasce da confidenze del Romano stesso.
83 Si conosce una sua attività di consulente dal 1830 al 1864; e dovrebbe essere sempre lui (ma non va esclusa la possibilità di omonimi, potenziata dalla variante grafica attestata in Demarco e De Marco) ad aver ripubblicato nel 1842 e nel 1846, a Napoli, e sempre in due tomi, la Pratica criminale di Tommaso Briganti; mentre è edito sempre a Napoli, e addirittura nel 1820, un interessante saggio Dell’amministrazione della giustizia penale ne’ governi costituzionali che dovrebbe essere suo. Fu anche traduttore dal francese.
84 Edito, come ho detto, in Bari, Tipog. Nazionale di V. de Ninno, 1865, di pp. 177, alla quali seguono altre 34 pagine che ci interessano.
85 G. Vallone, Introduzione a L. Romano, Scritti politici minori, cit., pp. XIX-XX (ma qui il raro volumetto del 1861 Le trame dei reazionari. Documenti di una congiura..., da me ascritto per errore ad Aurelio Saliceti, è in realtà opera di Cristofaro A. Saliceti, e relativo ad una congiura del 1807). Sappiamo che Romano produce documenti, o ne sollecita la produzione, per dimostrare che «alle sole gravissime colpe dei suoi reggitori debba la dinastia borbonica la sua caduta»: G. Vallone, Dalla setta al governo, cit., p. 271 nt. 322; l. romAno, Il mio rendiconto politico, cit., p. 65.
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altri liberali, di varia tendenza e adesione, e spesso di storia anche diversa da quella di Romano o di Albarella: poco noti perché non coinvolti in processi politici, o almeno nei maggiori tra essi, e restando, per lo più nel Regno, non godono, o anche, potendolo, non vogliono godere, dell’aura di ‘martire’ e del ruolo di ‘consorte’ che sarà proprio degli abili uomini di punta della Destra86. Sono innumerevoli, e sono con Romano perché, dopo essersi sentiti protetti da lui, ora pensano i Borboni «cacciati dal regno d’un calcio di Liborio Romano»87 e in particolare riconoscono: «se la questione napoletana fu risoluta senza colpo ferire lo si deve a Liborio Romano; se la rivoluzione italiana non fu a Napoli macchiata di sangue fu opera di Liborio Romano»88. Potrei citare diverse altre attestazioni analoghe, ma preferisco ribadire semplicemente che Romano ha molti nemici: ad esempio i borbonici che lo accusano di tradimento o i ‘consorti’ della Destra, come Massari, che lo accusano d’“improbità politica”; ma i suoi estimatori e i suoi amici, meno noti degli altri, certo, e meno capaci di lasciar tracce, sono infinitamente di più; sono, come sappiamo, i liberali in patria, presenti nella capitale e in altri nuclei abitati da sempre o almeno già nell’aprile del 1860, al momento dell’insurrezione di Palermo, ai quali, come insieme, è pur necessario dare un ruolo storico89. Sono in genere costoro che si riconoscono in Liborio Romano, e ai quali egli dà una evidenza, una identità politica: sono, per così dire, il suo partito90. Tutto questo ora interessa solo per un profilo ristretto, cioè per dimostrare la bontà di una intuizione a suo tempo avanzata: l’indagine della «messe delle dediche di libri ed opuscoli
offertegli (a Romano) tra il ‘60 e il ‘61” che è sembrata non solo degna di ricerca e di studio, ma pure «destinata a crescere»91, anche oltre quelle date, come dimostra appunto il volume di Albarella che addirittura contiene un’opera di Romano. Questi Documenti, sono in realtà una risposta alle Lettres Napolitaines del borbonico Pietro Calà Ulloa, edite a Roma, per i tipi della Civiltà Cattolica, nel 1863 e subito ristampate altrove e tradotte (1864) anche in italiano92.
86 Tutti, autonomisti, uomini della Sinistra, democratici, murattiani, borbonici, sono contro di loro. Segnalo un opuscolo rarissimo e anonimo, ma in verità scritto da un borbonico nemico di Romano, Giacomo Arditi, Cenno critico sulle tasse fiscali proposte nella seconda sessione del parlamento italiano, Firenze, Casini, 1864 pp. 24:15. Si tratta di convergenze note, magari pensate come ‘incredibili’ o ‘surreali’, e lo sono, ma riguardano il movimento politico, che può spingersi fino all’accordo sulle ragioni del Sud, non certo all’accordo sull’assetto costituzionale.
87 Così Francesco Michitelli (1797-1863) nella Storia delle rivoluzioni ne’ reami delle Due Sicilie, vol. III, Italia (ma Chieti) 1860, p. 70.
88 Così, con larga difesa del Romano, appunto V. Alberella d’Afflitto, Gli ultimi Borboni, cit., pp. 59-83:81.
89 Lo si tenta in G. Vallone, Dalla setta, cit., pp. 224-238 etc.; ma ne ho parlato anche sopra.
90 G. Vallone, Dalla setta, cit., pp. 302-308, e altrove.
91 G. Vallone, Dalla setta, cit., p. XV; G. Vallone, Introduzione a L.Romano, Scritti politici minori, cit., p. XX.
92 Non mi sembra che ci si sia accorti dei Documenti al seguito del volume di Albarella. Gino Doria non ne fa cenno annotando lo scritto già citato di P.C. Ulloa, Un re in esilio, cit.,p. 85 nt. 3 (correggo G. Vallone, Dalla setta, cit., pp. 185-186 nt. 40).
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In verità conosciamo un’altra risposta anonima di Romano, forse del dicembre 1865: Le lettere napolitane del Cavalier Pietro Ulloa e la Rivista di Scienze Sociali di Londra93. Con i Documenti siamo di fronte ad uno scritto diverso, che è esso stesso anonimo, ma sicuramente di Romano, come dimostrano molti particolari, ad esempio la mancata sottoscrizione del noto memorandum del 20 agosto 1860, che vi è riprodotto, e che vale per tacita ricognizione di paternità dell’intero; e soprattutto lo dimostrano diversi punti che riprendono testualmente Le lettere napolitane del Cavalier Pietro Ulloa. Possiamo pensare, dati per buoni gli intertempi, che Le lettere napolitane siano una appena successiva, se non contestuale, riproposta di questi Documenti, ma assai più stringata e ridotta nell’estensione (circa la metà) ed agile, e limitata quasi soltanto alla difesa del Romano. Indico i tratti salienti dei Documenti94: una lettera introduttiva e non firmata all’Albarella, nella quale auspica di «poter vivere dimenticato ed oscuro», ma nella quale emerge l’intento di pubblicare «forse un giorno qualcosa»95. Quindi un corpo centrale che dovrebbe essere suddiviso in paragrafi, numerati soltanto dal III al V96, e di questi il paragrafo V è il più ampio, e destinato alla sua autodifesa97: seguono quattro documenti: il preteso memorandum del 20 agosto 1860 di Romano a Francesco II; la lettera di Leopoldo di Borbone sempre a Francesco II del 24 agosto; la lettera di dimissioni dalla Luogotenenza al principe Eugenio di Savoia del 12 marzo 1861; la lettera di Nigra a Romano del 13 marzo 186198. Si vede subito che il corpo centrale dello scritto, a prescindere dalle
93 G. Vallone, Dalla setta, cit., pp. 185-186 e nt. 40; idem, Introduzione a L. Romano,
Scritti politici minori, cit., p. XI e nt. 20 (con la ristampa dello scritto a pp. 157-174).
94 Ritengo che il volume sia stato edito dopo il 17 maggio 1865 (data che compare nel testo di Albarella, p. 153 nt.1) e prima della fine del settembre 1865 quando Romano revoca la sua decisione di non candidarsi alle elezioni politiche di quell’anno, che sembra ancora ferma nella lettera anonima introduttiva dei Documenti (pp. 3-4).
95 Documenti, dopo V. Albarella d’Afflitto, Gli ultimi Borboni, cit., pp. 3-4.
96 Ivi, pp. 5- 28; Albarella (p. 63 nt. 2 lo indica come “Documento N. 1”).
97 Documenti, dopo V. Albarella d’Afflitto, Gli ultimi Borboni, cit., pp. 22-28.
98 Documenti, dopo V. Albarella d’Afflitto, Gli ultimi Borboni, cit., rispettivamente pp. 28-31 (N.2); 31-32 (N.3); 33-34 (N. 4 [per errore 3]); 34 (N. 5 [per errore 4]). Come si sa il cosiddetto (da Romano) memorandum del 20 agosto, quasi certamente non fu presentato a Francesco II: G. Vallone, Dalla setta, cit., pp. 270-271. Romano afferma di voler pubblicare il proclama reale del 6 settembre (p. 16), dichiarato opera sua, che invece sarà edito solo nel Rendiconto e nelle Memorie, e che non tutti ritengono scritto da lui (G. Vallone, Dalla setta, cit., p. 282 nt. 367). Aggiungo che nella mostra Persone e vicende della Terra del Capo 1861- 2011 (organizzata dalla Pro Loco Torre Vado e inaugurata a Morciano di Leuca il 16 aprile 2011), sono state esposte diverse carte romaniane di privata proprietà (un ulteriore prodotto della dispersione dell’archivio Romano: G. Vallone, Dalla setta, cit., p.102 nt. 332); tra queste appunto una copia manoscritta in tre facciate della lettera di dimissioni del 12 marzo al principe Eugenio, e, inedita, la copia manoscritta della lettera di Romano al Nigra, dello stesso giorno, che accludeva le dimissioni, dicendo: «Stimatissimo Signor Cavaliere, le condizioni del Consiglio sono ormai tali, che io non posso coscienziosamente, ed onorevolmente, più rimanervi. Onde, quanto so e posso, la prego a voler fare accettare da S.A.R. l’acchiusa mia
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sue suddivisioni formali, è distinto sostanzialmente in tre parti: la prima, che egli stesso
definisce ‘storica’, intende mostrare l’atteggiamento dei Borboni, e in particolare di Francesco II, nei confronti della costituzione, e il ruolo nel movimento politico della ‘Camerilla’, cioè del gruppo di reazionari «ch’erano i veri consiglieri della corona»; la seconda parte intende difendere il ministero costituzionale Spinelli-Romano dalle accuse di Ulloa; la terza si occupa di difendere dal medesimo accusatore l’attività del ministro Romano99. Tra molte possibili riflessioni, ci sono tre questioni notevoli da sottolineare: Romano dichiara di aver avuto come suo promotore agli incarichi ministeriali il liberale Leopoldo di Borbone, conte di Siracusa, e si manterrà fedele a questa impostazione (nel silenzio del Rendiconto politico) anche nelle sue Memorie. Invece il primo biografo del Romano, Giuseppe Lazzaro, afferma chiaramente che anche Luigi di Borbone, l’ambiguo e reazionario conte d’Aquila, ebbe ruolo primario in tale avvio ministeriale; si tratta d’una affermazione che, come tutto quello scritto biografico, è impensabile senza le confidenze di Romano stesso, ma che, evidentemente rivela più di quanto Romano avrebbe voluto100; e difatti, anche questi Documenti tacciono sul punto: ancora, dunque, un non-detto assai significativo nei suoi scritti. C’è un altro importante velame da segnalare: la ‘cospirazione’ a metà agosto del conte d’Aquila, che in questi Documenti è appena menzionata, mentre è sfumata in nome degli «inviolabili e sacri... segreti dei gabinetti dei re» nel Rendiconto politico, ed è infine sviscerata senza riserve nelle Memorie101; ed è proprio Albarella a darci dei particolari che confermano in pieno quest’ultimo racconto di Romano: sarebbe stato un esule napoletano a Marsiglia, ch’è quasi certamente Albarella stesso, a scoprire il trasporto delle armi destinate alla cospirazione, pronto a salpare per Napoli; il Romano, subito avvertito, appena giunta l’imbarcazione a
dimissione. Io cercherò veder subito la lodata A.S.R. e Lei per riprotestare ad ambedue la mia devozione e la mia indelebile riconoscenza per la fiducia di cui mi hanno onorato. E col più profondo rispetto mi dò l’onore di essere dell’E.V...».
99 Documenti, dopo V. Albarella d’Afflitto, Gli ultimi Borboni, cit., rispettivamente pp.
5-19; 19-22; 22-28 (coincidente, appunto, con il paragrafo V).
100 Giuseppe Lazzaro, Liborio Romano, cit., pp. 35-36. Dunque in questa biografi c’è più d’un profilo che sarà dispiaciuto ai Romano. Dal Lazzaro dipende in gran parte G. Ghezzi, Saggio storico, cit., pp. 85, 87. Comunque, sia Liborio che Giuseppe Romano rivelano nei loro scritti un qualche rapporto tra loro e il conte d’Aquila, e per più larghi rinvii a queste reticenti fonti: G. Vallone, Dalla setta, cit., pp. 166 nt. 557; 169 nt. 574; invece a p. 183 nt. 34 tratto dei rapporti del Lazzaro con Liborio Romano che ne Il mio rendiconto politico, cit., pp. 75-76 risponde al durissimo attacco finale del suo, in quel momento, ex amico (pp. 76-80). Mette in conto forse anche questo, la dura lettera, al settembre 1864, del Lazzaro contro Giuseppe Romano (“al più dee restare nel foro”) che si legge in P. Palumbo, L’on. Gaetano Brunetti e i suoi tempi, vol. I, Lecce, R. Tip. Editr. Salentina, 1915, pp. 212-213 (e Dalla setta, cit., pp. 316-317 per il contesto).
101 Documenti, dopo V. Albarella d’Afflitto, Gli ultimi Borboni, cit., p. 26 (ripetuto quasi alla lettera nelle Le lettere napolitane in L. Romano, Scritti politici minori, cit., p. 171);
L. Romano, Il mio rendiconto politico, cit., pp. 33-34; Memorie politiche, cit., pp. 73-74.
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Napoli, ne fa operare il sequestro102. C’è infine una polemica interessante «contro le fole narrate dal romanziere Dumas»103, che qui è ben evidente. Il rapporto di Liborio Romano con il Dumas è per vari motivi, importante. Indubbiamente i due sono stati amicissimi; sappiamo che in una lettera inviata al barese Vito Diana del 4 ottobre 1860, Liborio Romano lo esortava a procurare «il maggior numero d’associati che vi sarà possibile» al giornale napoletano di Dumas, l’Indipendente104. Tuttavia proprio dalle pagine dell’Indipendente, sullo scorcio del 1860, il Dumas ha fatto cenno ai contatti che egli avrebbe attivato tra Garibaldi e Romano, ben prima dunque dell’ingresso del Generale a Napoli, il 7 settembre 1860, con risposta di Romano al 27 dicembre, e un seguito di polemiche ricordate da Benedetto Croce105. Le polemiche e le smentite di Romano in ogni caso non hanno minimamente convinto il Dumas, che, se trova il modo di proporre, ancora nel marzo del 1861, e sempre dalle colonne del giornale, una qualche difesa dello stesso Romano dalle accuse di tradimento rivoltegli dal celebre vescovo Félix Antoine Dupanloup106, per il resto continua la sua strada, e fa rifluire quel materiale giornalistico, ed altro, nel suo celebre romanzo Les Garibaldiens (1861); un romanzo che, almeno per metà, riguarda appunto Liborio Romano, e anzi è stato certamente documentato da lui. Non ignoro l’austero avvertimento crociano di non cimentarsi nella ricerca della verità in queste polemiche, ma se la forza politica di Romano ha un ruolo, e ce l’ha, per l’Unità, non mi sentirei, né mi sono sentito107, di abbandonare il tentativo, e di trascurare il dubbio che una qualche verità, nelle pagine del Dumas, invece ci sia. In fondo Romano, che abbia o
102 V. Albarella d’Afflitto, Gli ultimi Borboni, cit., pp. 77-78 e nt. 1: in polemica col Dumas. Si aggiunga a quanto in G. Vallone, Dalla setta, cit., pp. 257-259.
103 Documenti, dopo V. Albarella d’Afflitto, Gli ultimi Borboni, cit., pp. 23-26.
104 R. Ricciardi, Unità non solo al Nord, in La Gazzetta del Mezzogiorno del 18 giugno 2011; ma è in sostanza la medesima lettera che Romano, in quei giorni, scrive all’amico Ercole Stasi: G. Vallone, Dalla setta, cit., p. 186, nt. 42.
105 B. Croce, Alessandro Dumas a Napoli nei primi anni della nuova Italia nella raccolta
Uomini e cose della vecchia Italia. Seconda serie, Bari, Laterza, 19432, pp. 342-365: 345-346. G. Vallone, Dalla setta, cit., pp. 268 nt. 310; 301 nt. 442. In un altro saggio della stessa raccolta (Gli ultimi borbonici, p. 394), Croce, parlando della “forza selvaggia” della plebe napoletana, dice che «un uomo accorto e spregiudicato, un don Liborio Romano, bastò, nel 1860, a tenerla a freno, valendosi dello stesso plebeo istituto della camorra». Il giudizio è importante soprattutto perché sembra tralatizio, e proveniente da uomini della Destra (Croce era stretto parente degli Spaventa).
106 Lo ricorda proprio Romano in questi Documenti, dopo V. Albarella d’Afflitto, Gli ultimi Borboni, cit., p. 26. Il materiale di Dumas rifluirà poi nell’opuscolo Le pape devant les Évangiles, l’histoire et la raison humaine, Napoli, Androsio, 1861, tradotto e edito anche in italiano, a Napoli, sempre nel 1861. Ne aveva trattato G. Ghezzi, Saggio storico, pp. X, 187-189. E si legga ora un preciso cenno nella postfazione di C. Schopp a A. Dumas, La camorra e altre storie di briganti (2011), Roma, Donzelli, 2012, p. 306, nt.1.
107 G. Vallone, Dalla setta, cit., pp. 267-269, dove tento di comprovare almeno alcune delle affermazioni del Dumas.
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L’oblio e il silenzio. Ritorno su Liborio Romano
meno tramato con il Dumas, dovendo però scegliere, ad un certo punto dell’agosto del 1860, tra Cavour e Garibaldi, ha scelto Garibaldi108; e nei suoi primissimi scritti minori è ben evidente, nonostante la sua consueta cautela, un comprensibile protagonismo unitario109; così come è altrettanto comprensibile che, in seguito, sotto la violenta pressione di critiche provenienti da parti diverse, ma convergenti contro la sua opera nel ministero Spinelli, egli abbia mutato atteggiamento. In particolare già dalla metà del 1861, e poi con più decisione dalla fine del 1863, al potenziarsi degli attacchi contro di lui, egli decide, non senza successivi ripensamenti e ricadute, di adottare la linea del lealismo costituzionale per interpretare la sua azione nel ministero borbonico dell’estate del 1860, e dunque stemperando i suoi meriti unitari, e istituzionalizzando i suoi rapporti con Garibaldi, ed anzi negandoli per il periodo anteriore al 7 settembre. Ne fanno esempio, tra altri, Le lettere napolitane del Cavalier Pietro Ulloa, del dicembre 1865, e i poco precedenti Documenti, nei quali, a proposito del suo ministero nella Dittatura Garibaldi, si dice «Romano... ministro costituzionale del paese più che della Corona, non poteva niegarsi di servire il paese»110; ma certo le rivelazioni del Dumas (e sappiamo che non sono le sole) su “precedenti (al 6 e 7 settembre) intelligenze” tra Garibaldi e Romano confliggono frontalmente con questa seconda impostazione romaniana, e, per vere o false che siano, egli deve respingerle111. È possibile così un’ultima riflessione: questi Documenti del 1865 nascono dal crogiolo, e a margine, del complesso lavoro memorialistico al quale Romano è intento negli ultimissimi suoi anni: un lavoro, difficile e amaro, continuamente ripensato e ricalibrato112, che non è stato edito da lui in vita, forse perché al clamore e al conflitto, ha preferito il silenzio.
108 Sulla ‘scelta’ di Romano rinvio in particolare a G. Vallone, Dalla setta, cit., pp. 262-269; ed anzi vorrei precisare quanto a pp. 293-294: se Romano non avesse scelto Garibaldi, gli si sarebbe forse potuta imputare, e solo in certa misura, l’opzione autonomistica fin da subito, come ha sostenuto a suo tempo Passerin d’Entrèves; ma se questa opzione fosse stata vera, egli avrebbe allora convocato il parlamento meridionale (che invece sceglie di non convocare), magari correndo il rischio d’una vittoria in ogni caso temporeggiatrice dei ‘consorti’ (pp. 194, 197, 230 nt. 169), che comunque a lungo hanno pensato di non partecipare alle elezioni (p. 191). Garibaldi, in questi giorni, significa subito Roma ed unità; ed è incompatibile con ogni ‘autonomia’ meridionale, come si sa bene appunto in quel torno di tempo, e lo si riscontra, ad esempio, dai testi in E. CORVAGLIA, Prima del meridionalismo, cit., p. 178. In seguito, cioè dopo il 7 settembre, alcuni penseranno anche di rinviare l’annessione al Piemonte e il plebiscito alla conquista di Roma, o almeno alla convocazione di una costituente: un tutto che non forma affatto idea autonomistica.
109 G. Vallone, Dalla setta, cit., pp. 182-188; 203-205.
110 Documenti, dopo V. Albarella d’Afflitto, Gli ultimi Borboni, rispettivamente p. 24. Però un ritorno unitario è in Le lettere napolitane del Cavalier Pietro Ulloa: G. Vallone, Dalla setta, cit., p. 205.
111 In ogni caso l’accenno al Dumas cade già in Le lettere napolitane del Cavalier Pietro Ulloa, e il silenzio mi pare si mantenga sia nel Rendiconto che nelle Memorie.
112 Ne tratto anche in Appendice.
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APPENDICE
La memorialistica maggiore di Liborio Romano
Se riflettiamo sulla consapevolezza, piena e forte in Liborio Romano, del ruolo importante da lui svolto in quella convulsa estate italiana del 1860; se si pensa alle critiche varie, immediate e violente, al suo operato politico, possiamo anche immaginare che egli abbia meditato fin nei mesi, o nei giorni, subito successivi al 7 settembre 1860, di scrivere in suo ricordo e in sua difesa, conservando documenti (strumenti nei quali ha creduto intensamente), predisponendo materiali e organizzando bozze. Le sue opere maggiori di memorialistica sono due, e diverse pur riguardando l’identico periodo, ma entrambe sono state edite postume: l’uno e l’altro fatto rivela travaglio; e converge in tal senso la circostanza che egli, nella sua vita, e in particolare nei suoi ultimissimi anni (dal 1860 al 1867), ha pubblicato, a prescindere dai suoi lavori forensi, solo alcuni brevi e occasionali scritti politici in sostanza difensivi della sua attività e del suo nome. Tutto dice il fervore, l’incertezza, forse il dolore, presente in tanto silenzio. Questo silenzio vale però per la stampa, perché da tempo sono noti diversi tentativi manoscritti di affermazione e di rivalsa prodotti da Romano per reazione agli attacchi e forse anche all’isolamento politico, e anche alla sua estraneazione, ch’egli sente maturarsi, dalla storia d’Italia. Pubblicare i suoi scritti, e difendersi, oppure restare in silenzio, favorendo così la propria esclusione, che altri, subdolamente promuove, e il proprio oblio che, in qualche modo, è quiete? Ecco forse il dubbio, umanissimo, per l’uomo Liborio Romano. Intanto egli scriveva, ed è alla nostra attenzione un altro suo tentativo. Le memorie politiche manoscritte di Liborio Romano conservate a Roma nel Museo Centrale del Risorgimento1 ci offrono contenuti di sapere minori o minimi per importanza2, e raramente innovativi3; hanno però interesse per la storia interna del travaglio romaniano successivo all’unione delle province meridionali nel Regno d’Italia, e precisano le scansioni cronologiche dell’opera maggiore di Romano. Anzitutto il manoscritto sembra vergato da due mani diverse: una è
1 Indicato come busta 91 fs.26 col titolo imposto di Frammenti di memorie autobiogra- fiche. Si tratta di un manoscritto di 89 carte spesso scritte al recto e al verso, ma anche con alcune carte bianche. Non sembra possibile risalire al momento esatto del loro deposito pubblico – forse databile al primo Novecento – né al nome del depositante.
2 Un brano, relativo all’interpellanza Massari, è stato edito da S. COPPOLA, In difesa di Liborio Romano, cit., p. 78; si tratta d’un brano da collegare a quelli pubblicati nelle opere memorialistiche, e a quelli editi da me (G. Vallone, Dalla setta, cit., pp. 347-348, e in L. Romano, Scritti politici minori, cit., pp. 178-180), e questi sono tratti da parti (non accolte nelle edizioni a stampa) di una redazione manoscritta, direi successiva a questa (almeno per certi brani), conservata in archivio privato.
3 Segnalo almeno alle cc. 45r-46v notizie della sua nomina a Consigliere di Cassazione (30 dicembre 1860) e del suo rifiuto che sono assai più articolate rispetto alle stampe: L. Romano, Il mio rendiconto politico, cit., p. 60; Memorie politiche, cit., p. 103 (qui afferma di aver rifiutato per favorire il Niutta). A c. 23v il ricordo grato dei suoi Direttori agli Interni nel ministero borbonico: Michele Giacchi, Carlo de Cesare, Emilio Civita, e Alessandro de Sterlich.
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L’oblio e il silenzio. Ritorno su Liborio Romano
certamente quella di Liborio Romano col suo inconfondibile ductus risalente da sinistra a destra, l’altra è quella d’un amanuense, al quale quasi certamente Romano usa dettare, tornando poi spesso a intervenire su quanto l’amanuense ha scritto4. Il manoscritto può essere diviso in due parti: la prima è alle carte 1-66; e la seconda è alle carte 67-89. La prima parte riguarda la stagione romaniana dalla Dittatura Garibaldi al suo ingresso nel Parlamento italiano e all’interpellanza Massari, che si mostra ancora una volta il suo maggior rovello; non c’è però ordine cronologico, perché il primo lacerto (cc. 1-24) inizia dalla sua “entrata nel Parlamento” e descrive, in sostanza il suo primo anno parlamentare; il secondo lacerto intitolato “Ricordi” (cc. 25-66) invece narra le sue vicende nella Dittatura Garibaldi, nelle Luogotenenze e, di nuovo, nel Parlamento italiano, ma in modo tutt’altro che lineare, con aggiunte e richiami che rendono assai complessa la ricostruzione dell’insieme5. Si tratta d’una parte fortemente tormentata, con correzioni e ripensamenti che a volte rendono ardua la lettura; mentre la presenza di brani anche lunghi con minori, o quasi assenti, correzioni6 fa pensare forse ad un antigrafo, direi parziale, consolidato almeno per quei brani. La seconda parte (cc. 67-89) è assai più ordinata e meno corretta, almeno nelle prime carte, e risale anch’essa, forse ad una parte antigrafa; in ogni caso la prima carta (c. 67) contiene l’indice dell’opera, suddivisa in quattro capitoli, ognuno dei quali ripartiti in paragrafi; nell’ultimo capitolo l’ultimo paragrafo, indicato come ‘Conchiusione’ è a sua volta diviso in paragrafi. Ci è anche rivelato il titolo che, con qualche tentennìo, Romano voleva dare alla sua opera: Il mio resoconto politico7. Il fatto che questo indice esponga date ed eventi tutti contenuti, al più tardi, entro l’anno 1861, non deve ingannare: anche le sue opere di memoria a stampa aggiungono poche pagine agli eventi successivi. In realtà questo scritto confuso, che non è prudente definire redazione, ha una data più tarda: diverse volte Romano scrive che sono «già decorsi tre anni dal nostro risorgimento»8, e se egli intende far data, com’è probabile, dalla liberazione di Napoli, cioè dal 7 settembre 1860, è facile pensare che scriva intorno al settembre 18639. In questo torno di tempo, egli ha già in animo di pubblicare il suo Resoconto; in un punto egli pensa di integrare il manoscritto «come dal Resoconto in bozze stampate», e in altro punto, con egual rinvio, afferma «si narri come nel Rendiconto in istampa sì per l’estero come per l’interno»10. Come spiegare queste affermazioni? Non è facile avanzare congetture; anzi, è probabilmente imprudente; forse il Romano aveva fatto predisporre una bozza di stampa di questo scritto (sulla base, penserei, di una precedente
4 Non è possibile pensare che le due grafie siano della stessa persona che scrive a tratti in modo corsivo e a tratti in modo calligrafico: tra l’altro le correzioni sul ductus calligrafico sono sempre di tipo corrivo, e mai viceversa. Bisogna pensare che Romano dettasse quando era stanco.Le carte 58v-61r, sembrano di una terza mano.
5 Ad esempio le sue osservazioni sulla riforma del personale (e prescindendo dalle loro partizioni interne) hanno questa sequenza: cc. 31r-32v (richiamo ‘a’), 40r-40v, 32v, 33r (ri- chiamo ‘c’), 41r-41v, 33r.
6 Ad esempio le cc. 50r-62r sulla Luogotenenza Carignano.
7 Alle cc. 67r, 69r, 74r.
8 Alle cc. 27v, 73r, 74r anche 27v.
9 La data del 1863 compare a c. 22r.
10 Alle cc. 68r, 70v.
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redazione manoscritta meno caotica di quella sotto i nostri occhi), ma insoddisfatto anche della bozza, ha riscritto almeno alcuni brani rinviando alla bozza se ritenuta utilizzabile11. Questo modo di procedere è usuale in Romano; sappiamo che già in altre occasioni ha fatto stampare alcuni fogli di un’opera mai edita12. La stessa previsione di un’edizione “per l’estero” rientra nella sua mentalità, e nella sua pratica13, e nelle sue relazioni, s’immagina, con l’Inghilterra, ad esempio attraverso il fratello Giuseppe. Quanto al titolo dell’opera, ora Resoconto ora (una sola volta) Rendiconto, non essendo dubbio che si tratti della stessa opera, siamo di fronte, certamente, a una incertezza dell’autore. Sappiamo però che in una lettera a Cataldo Nitti del 24 dicembre 1863, il Romano parla del suo Rendiconto politico come prossimo alla stampa14, e possiamo allora agevolmente pensare, anche per piena compatibilità delle date, che quest’ultimo sia divenuto il titolo preferito dell’opera, in quel torno di mesi. E, indubbiamente, le affinità e le coincidenze tra questo manoscritto e l’opera portata a stampa (soltanto nel 1960) con il titolo Il mio rendiconto politico, sono evidenti e continue, mentre le differenze, che pure ci sono, vanno spiegate con un successivo decorso di mesi (dopo il settembre 1863), nei quali Romano ha, evidentemente continuato il suo incessante e tormentoso lavoro di revisione: infatti la data terminale del manoscritto (riportata nella stampa del 1960) è del 20 settembre 1864, da Portici15. Tuttavia nemmeno ora Romano raggiunge la quiete, anche perché, indubbiamente, è incalzato da nuovi attacchi, e questo lavoro datato al 1864 è stato perciò ripensato e quasi integralmente riscritto, perché sono grandi le differenze che si possono riscontrare con le Memorie politiche: queste (edite nel 1873) hanno la data terminale (riportata nella stampa) dell’ottobre 1866, da Napoli, ma in una lettera del 26 ottobre 1866, Romano parla ancora del Rendiconto e della sua intenzione di farlo rivedere da Costantino Crisci. Dunque almeno il titolo (da Rendiconto a Memorie) è stato mutato dopo tale lettera, ma non si può escludere che siano sopravvenuti, o per suggerimento del Crisci, o direttamente, altri maggiori cambiamenti, ferma restando quella data terminale; in ogni caso è possibile sostenere che le Memorie hanno sostituito il Rendiconto solo nell’ultimo anno di vita di Romano16. Resta solo da considerare l’impostazione di fondo che Romano ha voluto dare al manoscritto del quale sto ragionando; vi si dice: «e sotto il governo di Francesco II e sotto quello di Garibaldi io era un ministro costituzionale responsabile e mi aveva il debito di tutelare il paese sì dagli atti di mala fede o di perfidia a cui il primo avesse potuto trascorrere per proprio volere o per altrui consiglio, e sì dall’esorbitanze alle quali l’anima sublime e generosa del secondo avrebbe potuto essere sospinta da quegli egregi patriotti che vedevano e vedono di soverchio ritardato il com-
11 Dunque è possibile pensare che l’antigrafo già indicato sopra (per alcuni brani della prima parte) sia costituito dalle bozze a stampa stesse, in quei brani riscritte (o dettate); bozze che qui, nella seconda parte, sono o ritrascritte per certi brani o oggetto di rinvio.
12 G. Vallone, Introduzione a L. Romano, Scritti politici minori, cit., p. XIX nt. 56.
13 Ivi, p. XI e nt. 20.
14 G. Vallone, Dalla setta, cit., p. 188 nt. 45.
15 L. Romano, Il mio rendiconto politico, p. 143. Rinvio, integrandolo in parte, anche a quanto in G. Vallone, Dalla setta, cit., p. 188 nt. 45.
16 L.Romano, Memorie politiche, p. 137; G. Vallone, Dalla setta, cit., p. 188 nt. 46.
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L’oblio e il silenzio. Ritorno su Liborio Romano
pimento dei destini d’Italia»17. Ecco dunque una evidente impostazione di lealismo costi
tuzionale, che conforta una già ricordata intuizione secondo la quale tale linea è già pre- sente in scritti della metà del 1861, si potenzia via via fino ad affermarsi verso la fine del 1863 non senza parziali ripensamenti e commistioni anche successivi18; ma la decisione «di sfumare i suoi meriti unitari per difendere il proprio prestigio morale», fu indubbiamente per Romano non priva di amarezza19.
17 Così alla c. 76r. Però a c. 63r, tracce della sua inclinazione per Garibaldi.
18 Lo scritto importante della metà del 1861 è quello anonimo del de Petra: G. Vallone, Dalla setta, cit., pp. 186 nt. 40, 188 e nt. 44bis; ove anche si data il consolidamento lealista alla fine del 1863 come effetto degli scritti di Ulloa e di Lazzaro, e i tempi sono ora comprovati da questo manoscritto ch’è appunto databile alla fine del 1863; mentre commistioni sono sia in esso che in opere successive, come nel Rendiconto a stampa che se ha tracce monarchico-unitarie ne ha pure di lealismo costituzionale: L. Romano, Il mio rendiconto politico, cit., p. 54 (preciso dunque quanto in G. Vallone, Dalla setta, p. 212); e ripensamenti sono anche in opere più tarde: G. Vallone, Dalla setta, cit., pp. 203-205.
19 G. Vallone, Dalla setta, cit., p. 203.
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