Patù si trova nel cuore del Salento. Li dove le chiome d'argento degli ulivi si alternano alle palme e il verde smeraldo dello Jonio incontra il blu intenso dell'Adriatico. Millesettecento abitanti. Un caldo africano e, come in tutti i Sud del mondo, case bianche, tinteggiate con la calce.
Qui è custodito un pezzo del Risorgimento italiano a cui la tenacia di Giovanni Spano, albergatore e ristoratore, con la passione per le vicende dei "Padri della Patria", cerca di restituire la dignità che merita. Impresa difficile, quasi impossibile. Perchè la storia la scrivono sempre i vincitori. E la figura di Liborio Romano nonostante il 17 luglio di quest'anno siano trascorsi 140 anni dalla sua scomparsa - non riesce ancora a mettere d'accordo gli studiosi. L'unica certezza è rappresentata da "ciceri e tria" e dalle "sagne torte con ricotta forte" che Giovanni Spano, nel suo locale "mamma Rosa", prepara come la tradizione contadina insegna.
L'orologio della storia, dunque ci riporta indietro. Don Libò, il più illustre cittadino patuense, è, a seconda dei punti di vista, patriota, traditore, voltagabbana, rivoluzionario liberale (lo arrestano nel 1848), grande calunniato. Perchè questa figura politica racchiude la spregiudicatezza tipica degli uomini di potere di oggi, il trasformismo di certe carriere. Lui, ministro dell'Interno e capo della Polizia del regno delle due Sicilie, consegna a Giuseppe Garibaldi "chiavi in mano" la città di Napoli, finendo per essere confermato nella carica dall'eroe dei due mondi (a proposito, a finanziare l'impresa delle camicie rosse ci pensa la massoneria inglese con tre milioni di piastre turche, equivalenti a 500 milioni di dollari attuali, grazie ai quali vengono corrotti generali, alti funzionari e ministri borbonici).
A Francesco II° il Romano, ritenuto legato alla Massoneria, propone di allontanarsi senza combattere per risparmiare ai napoletani la guerra e a Napoli la distruzione, nel frattempo stringe accordi con Cavour e manda un telegrama al "Redentore d'Italia", Garibaldi, ricordando "l'impazienza" per il suo arrivo e che "in questa aspettativa io starò saldo a tutela dell'ordine e della tranquillità pubblica". Come ? Accordandosi con i capi della Camorra, Michele o' Chiazzere, Schiavetto, Persianaro, De Crescenzio, scarcerandoli, armando una specie di guardia della pubblica sicurezza per pattugliare i quartieri della città. "Frammischiai tra questi l'elemento camorrista in proporzione che, anche volendolo, non poteva nuocere", scriverà in seguito Romano.
L'interrogativo ritorna: quale delle due anime di don Libò è quella giusta? Nel 1861, viene eletto in Parlamento, a Torino. E' il più suffragato in otto collegi. Un successo senza precedenti. Archiviata la lunga parentesi politica Romano si ritira nella natia Patù, dimenticato. Oggi il palazzo di famiglia di questo discusso personaggio, di proprietà del Comune, aspetta di essere restaurato.
Ma la storia di Garibaldi incrocia il destino di altri pugliesi. Cinque erano quelli della famosa spedizione dei Mille (in realtà erano 1089) che sbarcarono a Marsala: il medico brindisino Cesare Braico, il tenente colonnello foggiano Moisè Maldacea, il possidente tarantino Nicola Mignogna, l'avvocato turese Francesco Curzio e il colonnello grumese Filippo Minutilli, comandante del Genio durante la spedizione. Minutilli, combattè con Garibaldi in Sudamerica. Un'amicizia cementata dal ferimento reciproco avvenuto a Montevideo. Finita la spedizione riprese l'attività di penalista, con successo.
Firmato: Gaetano Campione - La Gazzetta del Mezzogiorno 3.7.2007 |